Maga Civil War: i Repubblicani si spaccano sulla guerra in Iran

Maga Civil War: i Repubblicani si spaccano sulla guerra in Iran

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Poche ore dopo l’annuncio entusiasta del cessate il fuoco da parte di Trump, piovono le accuse di Israele su altri attacchi da parte dell’Iran, che prontamente nega. Insomma, la tregua di cui il presidente americano si fa vanto, non sembra così “illimitata” come l’ha definita sul suo social Truth.

Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025 gli Stati Uniti, in coordinamento con Israele, hanno colpito tre siti nucleari iraniani – Fordow, Natanz e Isfahan – in un’operazione militare decisa in totale autonomia da Donald Trump, che ha così bypassato il Congresso. L’attacco ha avuto un’immediata eco internazionale, ma ha prodotto anche un effetto dirompente sul fronte interno americano: ha riacceso infatti le tensioni latenti dentro al movimento Maga (Make America Great Again), aprendo un conflitto politico che oggi minaccia di approfondire una frattura che potrebbe diventare insanabile.

La frattura tra le diverse anime del movimento che sostiene la svolta autoritaria di Donald Trump si è concretizzata in tre tronconi principali, due dei quali favorevoli alla guerra. Da un lato, i falchi interventisti, che vedono nell’uso della forza un dovere morale ma anche e soprattutto strategico; dall’altro, gli isolazionisti della linea “America First”, da sempre contrari a nuovi conflitti in Medio Oriente. A complicare ulteriormente il quadro si è aggiunto un terzo blocco, meno presente sui media ma sempre più influente: quello dei cristiani nazionalisti, guidati da figure come Mike Huckabee, che leggono l’attacco all’Iran in chiave millenaristica e apocalittica.

Quello che fino a pochi giorni fa sembrava un fronte compatto intorno alla figura di Donald Trump oggi mostra segni di sfaldamento. Mentre il presidente degli Stati Uniti cerca di tenere insieme posizioni inconciliabili – e c’è chi dice che il cessate il fuoco del 23 giugno sarebbe più che altro finalizzato ad appianare il dissenso interno al partito – cresce il rischio che questa crisi si trasformi in una vera e propria guerra civile all’interno del movimento oggi più rappresentativo della destra americana.

 

Il fronte interventista: gli USA poliziotto globale

L’attacco all’Iran ha ricevuto il sostegno immediato di una parte del fronte repubblicano legata alla tradizione neocon e interventista, che da anni spinge per un ritorno all’assertività militare americana nel mondo. A guidare questa fazione ci sono figure come il senatore del Texas Ted Cruz e il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, che hanno accolto con entusiasmo l’operazione del 21 giugno, presentandola come un atto necessario per fermare l’avanzata nucleare iraniana e ristabilire la deterrenza americana nella regione. In quest’ottica, l’alleanza stretta con Israele viene esaltata come un pilastro della politica estera repubblicana, che vede lo Stato ebraico come uno dei perni dell’influenza a stelle e strisce su tutto il Medio Oriente.

Molti esponenti della fazione interventista parlano apertamente della necessità di un cambio di regime a Teheran e invitano Trump a non fermarsi all’azione simbolica. In questa visione, l’Iran non è solo una minaccia strategica, ma anche un nemico a livello ideologico che giustifica un intervento diretto, se necessario. Lindsey Graham, senatore della Carolina del Sud e considerato uno dei falchi vecchio stile del partito repubblicano, ha chiesto un’escalation se Teheran dovesse rispondere militarmente. «Vogliono uccidere gli ebrei. E stanno venendo a cercarci» ha dichiarato Graham. «Voglio dire a Steve Bannon e a tutte queste persone che l’Iran è diverso. Le armi nucleari nelle mani degli ayatollah sono un incubo per il mondo». Come si vede, l’argomento centrale di questo fronte è che gli USA avrebbero bisogno riaffermare il proprio ruolo di gendarme globale, anche attraverso l’uso della forza: un’idea che piace a una parte dell’elettorato repubblicano più tradizionale e legato ai ricordi dell’11 settembre, della presidenza Bush e delle guerre in Iraq e Afghanistan.

Dopo qualche tentennamento, anche Trump sembra essersi schierato infine con il fronte interventista. Dopo le ripetute dichiarazioni del segretario di Stato Marco Rubio e del vicepresidente J.D. Vance, che hanno ribadito più volte che la volontà dell’amministrazione USA non sia quella di arrivare a un rovesciamento del regime degli ayatollah, Donald Trump ha rotto gli indugi e ha pubblicato questo intervento sul social Truth: «non è politicamente corretto usare il termine ”cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE GRANDE L’IRAN, perché non ci dovrebbe essere un cambio di regime? MIGA!!!». Uno stato eloquente, che ha rotto le uova nel paniere di chi cercava di minimizzare la frattura dentro al partito, proprio mentre questa retorica rischia di incrinare i rapporti con altri segmenti del movimento Maga, nati in parte come reazione all’interventismo neocon degli anni Duemila.

 

I Maga isolazionisti: Prima l’America!

Se l’attacco contro i siti nucleari iraniani è stato accolto con entusiasmo dai falchi, ha invece provocato una reazione di rigetto nell’ala isolazionista del movimento Maga, quella più fedele allo spirito originario del trumpismo. Per questo settore, l’interventismo militare è il simbolo della “vecchia destra” neoconservatrice, da cui Trump aveva promesso di emanciparsi. Tra le voci più critiche spiccano Steve Bannon, Tucker Carlson – conduttore televisivo protagonista di un surreale siparietto con il senatore texano Ted Cruz – e il deputato del Kentucky Thomas Massie, che hanno denunciato l’operazione del 21 giugno come un vero e proprio passo falso sia dal punto di vista strategico che ideologico. In particolare, Bannon ha parlato apertamente di «rischio di un cambio di regime» e di una nuova guerra in Medio Oriente combattuta «per conto terzi» (ossia Israele), mentre Carlson ha evocato lo spettro di un’escalation con migliaia di vittime americane in un conflitto che «non riguarda la sicurezza nazionale degli Stati Uniti».

Anche nel Congresso, alcuni repubblicani fedeli alla linea America First (Prima l’America) hanno criticato la decisione di agire bypassando il parlamento, definendola anticostituzionale. Thomas Massie, rappresentante del Kentucky, ha dichiarato che l’attacco non sarebbe giustificato perché «non c’è stata una immediata minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti», attirandosi le ire di Donald Trump, il quale lo ha definito «non MAGA» e ha iniziato a lavorare affinché i repubblicani non lo sostengono per la rielezione nelle primarie del 2026. Persino Marjorie Taylor Greene, solitamente allineata con le posizioni del tycoon, ha espresso perplessità sugli attacchi, affermando che Trump avrebbe usato la retorica Maga come «specchietto per le allodole», salvo poi assumere una postura in linea con i neocon alla Bush in materia di politica estera.

Tuttavia, molti dei sostenitori di questa fazione isolazionista si sono affrettati a lodare gli attacchi come una decisione che punta a dare un segnale all’Iran senza scatenare una guerra totale, ma solo mettendo a segno azioni mirate come era stata nel 2020 l’uccisione del generale iraniano Soleimani. Matt Gaetz, volto del trumpismo più radicale in Florida, ha dichiarato che «il presidente Trump vuole sostanzialmente che questo sia come l’attacco a Soleimani – uno e basta. Questa non è una guerra per abbattere il regime. Trump il pacificatore!». Sulla stessa linea Charlie Kirk, attivista di estrema destra e volto del movimento Turning Point USA. «L’Iran non ha dato scelta al Presidente Trump» ha scritto Kirk su X. «Per un decennio è stato irremovibile sul fatto che l’Iran non otterrà mai un’arma nucleare. L’Iran ha deciso di rinunciare alla diplomazia per cercare di ottenere una bomba. Questo è un attacco chirurgico, operato alla perfezione. Il presidente Trump ha agito con prudenza e decisione».

La terza via estremista della destra evangelica

Oltre alla dicotomia classica tra falchi e isolazionisti, l’attacco all’Iran ha messo in luce un terzo blocco emergente dentro al fronte repubblicano: quello dei nazionalisti cristiani, una corrente che fonde millenarismo religioso, identitarismo americano e sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Figure come Mike Huckabee – pastore battista, ex governatore dell’Arkansas e telepredicatore influente su canali evangelici – hanno interpretato l’operazione del 21 giugno non tanto in chiave strategica o costituzionale, ma in chiave apocalittica, come parte di una battaglia tra Bene e Male e un passo verso il compimento della profezia biblica sul destino di Israele e del Medio Oriente.

Questa narrazione messianica si è fatta strada soprattutto sui media evangelici e tra le basi rurali del Sud, dove permane profondamente l’idea che gli Stati Uniti siano uno strumento della volontà divina sulla Terra. Per questo blocco, l’Iran non è semplicemente una minaccia militare, ma una «Nazione ostile a Dio» che va contrastata anche con la forza delle armi. Lo stesso Huckabee alcuni giorni fa ha inviato una lettera a Donald Trump in persona, chiedendo a gran voce l’uso della bomba nucleare contro Teheran, per preparare il terreno allo scontro finale fra forze di Dio ed eserciti di Satana che – secondo le dottrine millenariste degli evangelici – si compirà sulla piana di Megiddo, poco lontano da Gerusalemme. Questa componente nazionalista cristiana – che alcuni definiscono sionista cristiana, visto il sostegno incondizionato a Israele – contribuisce a rendere ancora più instabile l’equilibrio interno al movimento, con Trump costretto a tenere insieme un fronte dove interventismo, isolazionismo ed escatologia evangelica convivono a stento.

 

Una “guerra civile” tra i repubblicani?

L’attacco all’Iran ha fatto da detonatore a una crisi latente che attraversava il fronte Maga da tempo. La promessa originaria del trumpismo – mettere fine alle “guerre infinite” e riportare le truppe a casa – è oggi in collisione con le scelte di Donald Trump, che tenta di conciliare esigenze strategiche, pressioni alleate (in primis da Israele) e la pluralità di voci interne al suo stesso campo. Il risultato è una miscela esplosiva: mentre Trump cerca di mostrarsi forte, le sue decisioni militari – che sono fortemente condizionate dall’alleato israeliano – gli stanno alienando proprio quella base più visceralmente allergica alla vecchia destra istituzionale che ha contribuito in modo fondamentale al successo del tycoon nelle elezioni del 2024.

La questione non è solo di tattica o di retorica, ma strutturale. Il movimento Maga si trova oggi spaccato tra tre visioni del ruolo degli USA nello scacchiere globale molto difficili da conciliare fra loro: imperialismo muscolare, isolazionismo razzista e millenarismo evangelico. Con le elezioni di medio termine del 2026 all’orizzonte e un partito così frammentato, Trump rischia di non essere più il collante che tiene insieme il suo impero politico. La “guerra civile” interna – già visibile nelle tensioni tra il senatore Massie e l’apparato trumpiano – potrebbe accelerare, trasformandosi in una resa dei conti su chi ha davvero il controllo ideologico del trumpismo nel 2025: un esito che a questo punto nemmeno Trump potrebbe riuscire a evitare.

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