Oltre alle generiche dichiarazioni diplomatiche i vicini dell’Iran non stanno intervenendo con particolare decisione sulla guerra scatenata da Israele e sui recenti bombardamenti statunitensi. Perché? Il motivo è semplice, tra Teheran e i Paesi confinanti i rapporti sono molto tesi, sia storicamente sia oggi. Prendiamo il caso dell’Arabia Saudita.
Fino al 1979, le relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita erano per lo più pacifiche. Entrambe le nazioni erano due monarchie assolute, alleate con gli Americani contro gli alleati sovietici in Medio Oriente. Tuttavia, la caduta dello Shah e l’ascesa del governo teocratico in Iran capovolsero la situazione.
Una delle prime azioni del nuovo governo iraniano fu infatti condannare i Sauditi come un gruppo di apostati che avevano svenduto il loro Paese agli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il governo saudita iniziò a considerare gli iraniani una minaccia peggiore dell’Unione Sovietica.
Tra il 1980 e il 1988, i Sauditi sostennero finanziariamente e militarmente Saddam Hussein durante la sua tentata invasione dell’Iran (1980-1988). Nel 1987 le crescenti tensioni tra i due Paesi portarono poi ad una serie di dimostrazioni/scontri tra pellegrini sciiti e le forze di sicurezza saudite presso Mecca, causando la morte di circa 400 persone, per lo più di nazionalità iraniana.
Le tensioni tra i due Paesi persistono tuttora per molteplici motivi. Prima di tutto, entrambe le loro economie si basano sulla produzione e vendita di petrolio, diventando così rivali economici. Inoltre, rivendicano entrambe il controllo del Golfo Persico, ossia del tratto di Oceano Indiano che li separa.
Oltre alle ragioni politico-economiche, le due nazioni sono in conflitto anche per motivi religiosi. L’Arabia Saudita è a maggioranza sunnita, mentre gli iraniani sono per lo più sciiti. La tensione religiosa è complicata dal fatto che Mecca e Medina, le due città sacre dell’Islam, sono entrambe in mano ai Sauditi.
La strategia iraniana
L’asse portante della politica estera iraniana è il cosiddetto “Asse della Resistenza”, il complesso sistema di alleanze controllato dall’Iran il cui scopo principale è isolare militarmente e diplomaticamente Israele e altri stati considerati ostili da Teheran.
Le origini dell’Asse risalgono alla guerra civile libanese (1975-1990), quando Teheran sostenne militarmente ed economicamente Hezbollah, gruppo armato sciita, contro i suoi rivali sunniti e cristiani. Sebbene il conflitto si risolse tecnicamente con un cessate il fuoco, in realtà la sua conclusione avvantaggiò enormemente l’Iran.
Non solo Hezbollah divenne il più grande ed influente gruppo politico in Libano, ma l’Iran trovò anche un utile alleato nella Siria. Nel corso del conflitto, il dittatore siriano Hafiz al-Assad si attivò per formare un’alleanza non ufficiale con Teheran in quanto i due Paesi erano entrambi ostili all’Arabia Saudita e agli altri alleati americani in Medio Oriente.
Nel corso degli anni novanta e duemila, Teheran sostituì i Paesi arabi come principale sponsor dei gruppi armati palestinesi sparsi per la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Nel 2006 Hamas, gruppo terroristico palestinese alleato con Teheran, prese il potere nella Striscia di Gaza, soppiantando i gruppi precedentemente alleati con l’Arabia Saudita.
Nel 2014, Teheran riuscì ad estendere la sua influenza anche vicino ai confini dei rivali sauditi. Quell’anno, lo Yemen collassò in una guerra civile e l’Iran si affrettò a sostenere militarmente gruppi armati alleati. Grazie al supporto iraniano, il gruppo terroristico degli Houthi riuscì a conquistare il nord del Paese, e soprattutto il porto di Hodeida, fornendo alle navi iraniane una via di accesso per il Mar Rosso.
I recenti sviluppi
I problemi per l’Iran sono cominciati il 7 ottobre 2023, a seguito dell’attacco di Hamas contro Israele in cui morirono più di 1000 civili e furono catturati circa 200 ostaggi. Teheran non era stata informata che l’attacco avrebbe avuto luogo, ma si affrettò comunque a schierarsi con Hamas e minacciò Tel Aviv di gravi conseguenze se la guerra fosse progredita ulteriormente.
Il 27 ottobre, le forze armate israeliane entrarono ufficialmente in Gaza per liberare gli ostaggi ed eliminare i leader di Hamas. Se il primo obbiettivo sembra ancora lontano (secondo lo stesso governo israeliano, solo 24 ostaggi sarebbero ancora in vita), Tel Aviv sembra avere avuto più successo con il secondo.
Nel giro di poco meno di due anni, il leader di Hamas Yahya Sinwar e diversi suoi sottoposti sono stati uccisi, mentre aumentano le proteste degli abitanti della Striscia contro il gruppo terroristico.
La guerra si estese ben presto anche al Libano, dopo che un attacco missilistico di Hezbollah colpì un campo da calcio israeliano nel luglio del 2024. Il successivo settembre, Israele bombardò ed invase militarmente il sud del Libano, uccidendo molti membri di Hezbollah e distruggendo buona parte delle risorse del gruppo armato.
Un ulteriore colpo all’ “Asse della Resistenza” arrivò poi nel dicembre del 2024. Avendo usato molte delle sue risorse nel tentativo di assistere Hamas ed Hezbollah, Teheran non poté aiutare in alcun modo il regime di Bashar Al-Assad quando l’HTS, gruppo fondamentalista sostenuto dai sauditi, diede inizio ad una nuova insurrezione.
La strategia saudita
Con l’eccezione di una fallita invasione dello Yemen nel 2016, i Sauditi hanno sempre evitato lo scontro diretto con l’Iran ed i suoi alleati. Attualmente Riyadh spende il 7,1 % del suo pil nella modernizzazione delle sue forze armate, ma la sua arma prediletta sembra rimanere la diplomazia.
Mohammad bin Salman, primo ministro ed erede al trono dell’Arabia Saudita, è il principale responsabile di questa strategia. Sotto la sua guida, il regno arabo ha infatti iniziato ad espandere le sue relazioni diplomatiche con il resto della comunità internazionale, inclusa la Cina.
Allo stesso tempo, il governo saudita ha avviato il programma strategico Saudi Vision 2030 con lo scopo di diversificare la sua economia ed avviare diverse riforme sociali. L’ambizione del principe è rendere l’Arabia Saudita il centro della diplomazia internazionale, offrendosi come mediatore neutrale per numerosi conflitti, e assicurare la sua stabilità di fronte ai cambiamenti nell’economia e nella politica internazionali.
Il successo di questa strategia sembra essere stato dimostrato dalla recente visita di Donald Trump in Medio Oriente. Il presidente statunitense ha accettato di porre fine alle sanzioni contro la Siria, ora governata dall’HTS, e di vendere oltre 140 milioni di armi a Riyadh nonostante le accuse di violazioni dei diritti umani rivolte contro Riyadh.
Attualmente i Sauditi sembrano voler sfruttare la loro relazione con Trump e la loro influenza internazionale per persuadere Israele ad accettare un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La conclusione del conflitto dovrebbe inoltre permettere la creazione di uno stato palestinese indipendente, posto sotto la protezione di Riyadh.
La soluzione della questione palestinese potrebbe aumentare notevolmente l’influenza saudita nel mondo arabo, permettendo allo stesso tempo a Riyadh di normalizzare i rapporti con Tel Aviv e rafforzare così il fronte anti-iraniano.
Raffaele Gaggioli