Sembrava dormire, e invece no. Nei primi mesi di amministrazione Trump l’opposizione – non solo i Democratici, ma anche la società civile e il movimento studentesco – pareva a tutti sostanzialmente annichilita dalla impressionante sequenza di decreti firmati dal nuovo presidente e dalla macchina repressiva messasi in moto a partire dal 20 gennaio. Ma qualcosa ora si è risvegliato nei cuori delle americane e degli americani che temono una svolta in senso autoritario del proprio Paese, e la protesta contro le politiche della nuova amministrazione repubblicana si è fatta largo da decine di città statunitensi fin dentro alle aule del Congresso.
Negli ultimi giorni l’epicentro di queste proteste è stata la città di Los Angeles in California, dove le manifestazioni contro le operazioni dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) sono iniziate il 6 giugno 2025, in risposta a un raid dell’agenzia che ha portato all’arresto di almeno 45 persone. Le proteste sono proseguite il giorno successivo nelle zone di Paramount e Compton, con blocchi stradali e scontri con le forze di polizia. I partecipanti, tra cui molti studenti e lavoratori, hanno denunciato le politiche di deportazione di massa e hanno chiesto la fine delle operazioni dell’ICE nella città.
In risposta a questa mobilitazione, animata soprattutto da semplici cittadini indignati per l’arresto arbitrario di decine di persone da parte dell’ICE, il presidente Donald Trump ha ordinato il dispiegamento di 2.000 soldati della Guardia Nazionale, una mossa che ha suscitato forti critiche da parte del governatore della California, Gavin Newsom, e della sindaca di Los Angeles, Karen Bass. Entrambi hanno denunciato l’intervento federale come un tentativo di scavalcare l’autonomia dello Stato californiano e, in definitiva, come una provocazione politica. Ma se proviamo a vederla in prospettiva, questa ondata di proteste – insieme a tutto quello che è accaduto da gennaio ad oggi – potrebbe anche rappresentare il preludio di una opposizione strutturata al “sistema Trump”.
Un tour contro l’oligarchia
All’interno e attorno al Partito Democratico, il quale che piaccia o no è ancora il principale partito di opposizione al trumpismo, gli unici ad avere una strategia sono sembrati sin da subito i componenti dell’ala più a sinistra. Mentre i moderati nel partito si limitavano a deboli proteste dentro al Congresso, il senatore indipendente del Vermont Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, membra dei Democratic Socialist of America e rappresentante del Bronx, hanno deciso di rivolgersi alla piazza e di mobilitare direttamente migliaia di persone contro la nuova amministrazione statunitense.
Il tour di Sanders e Ocasio-Cortez è stato – e continua ad essere tutt’ora – un grande successo, a partire dal titolo “Combatti l’oligarchia”, che è riuscito a incanalare la rabbia dei cittadini contro il gruppo di miliardari che, pur non eletti da nessuno, guidano le scelte dell’amministrazione: non solo Elon Musk, che naturalmente è il bersaglio più visibile, ma anche altri super-ricchi come Jeff Bezos, Peter Thiel e Mark Zuckerberg, tutti accorsi alla corte del tycoon a presentare omaggio all’uomo che si è autodefinito «il re» degli Stati Uniti. Ma il successo dell’iniziativa dei due parlamentari si è visto anche nei numeri: la coppia ha radunato decine di migliaia di persone, non solo in città democratiche come Los Angeles, dove Sanders e Ocasio-Cortez hanno radunato almeno 36mila persone, ma anche in roccaforti repubblicane come Salt Lake City in Utah o Boise in Idaho. Uno dei punti più alti del tour è stato, almeno fino ad ora, la presenza di Bernie Sanders sul palco del festival musicale Coachella in California, dove il senatore del Vermont – che sta chiaramente lavorando per costruire un ampio movimento politico – ha incassato l’ovazione dei giovani parlando di diritti dei lavoratori e delle minoranze, mentre i Green Day, poco dopo, hanno cambiato il testo di alcune loro canzoni per omaggiare la lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana.
Ma si nota anche un’altra cosa nei comizi del senatore del Vermont oltre alla sua ormai proverbiale combattività: Bernie Sanders, che da tanto tempo è amatissimo dai giovani di sinistra nonostante il suo atteggiamento da anziano orso burbero, ha cambiato in maniera abbastanza evidente la propria modalità comunicativa, mostrandosi più amichevole, pur non cedendo di un millimetro sulle questioni principali. Al termine dell’ultimo, partecipatissimo appuntamento del tour a Bethlehem, una città di 75mila abitanti in Pennsylvania, davanti a migliaia di sostenitori Bernie Sanders ha concluso dicendo «siete così rumorosi che Trump vi starà sentendo perfino da Mar-a-Lago».
Giù le mani da…tutto quanto
Il protagonismo di Sanders e Ocasio-Cortez, anche se ha avuto e continua ad avere un grande ruolo nello sviluppo della protesta anti-Trump in un canale che mette in connessione la piazza e il Congresso, non è che una parte del movimento più complessivo. Lo si è visto a partire dal 5 Aprile scorso, quando più di 150 organizzazioni per i diritti civili e femministe, così come associazioni progressiste e sindacali, sono riuscite a mettere da parte le differenze e a organizzarsi per rispondere colpo su colpo alle politiche di Donald Trump. Usando il nome collettivo Hands Off, “giù le mani”, queste organizzazioni hanno messo in campo una serie di manifestazioni in più di 1400 luoghi in tutti i 50 Stati degli USA, coinvolgendo nelle azioni di protesta fra i 3 e i 5 milioni di persone, con una capacità di mobilitazione che non si vedeva da anni negli Stati Uniti. A scendere in piazza non sono state solo le cosiddette “città santuario” democratiche, come New York City, ma anche località storicamente repubblicane, come il ricco quartiere di The Villages vicino a Ocala, in Florida, che ha visto più di duemila residenti protestare contro le decisioni della attuale amministrazione Trump.
Giù le mani da che cosa? È legittimo chiederselo, e la risposta è “da tutti i nostri diritti”: si manifesta per quelli delle donne, in particolare il diritto alla libertà di scelta in tema di aborto, ma anche per la difesa e l’ampliamento dei sistemi Medicare e Medicaid, che in un paese preda dell’arbitrio delle assicurazioni sanitarie private garantiscono – ancora per quanto? – l’accesso alle cure a chi non può permettersi di spendere migliaia di dollari per un semplice viaggio in ambulanza. Durante la protesta a Washington D.C., che ha visto la partecipazione di 100mila persone (dieci volte le aspettative degli organizzatori), le rivendicazioni dei manifestanti sono state ben sintetizzate dalla deputata socialista al Congresso Ilhan Omar, la stessa che ha vinto alle ultime elezioni nonostante le pressioni della lobby filoisraeliana AIPAC che aveva offerto milioni di dollari ai democratici per trovare un candidato concorrente. «Se volete un Paese che creda ancora nel giusto processo, dobbiamo lottare per questo», ha dichiarato Ilhan Omar, facendo riferimento al caso di Mahmoud Khalil e degli altri studenti arrestati e a rischio di deportazione. «Se credete in un Paese in cui ci prendiamo cura dei nostri vicini, ci prendiamo cura dei poveri e ci assicuriamo che i nostri figli abbiano un futuro in cui credere, dobbiamo lottare per questo».
Da Cory Booker a Harvard, nel cuore del sistema
Le manifestazioni di piazza e il tour di Sanders e Ocasio-Cortez ha risvegliato anche qualche reazione da parte dei democratici più moderati, che temono di essere superati a sinistra dai loro colleghi socialisti. È il caso di Cory Booker, senatore democratico del New Jersey che ha tenuto un discorso di oltre 25 ore al Congresso come atto di protesta per la sistematica violazione dei diritti civili da parte dell’amministrazione Trump. Il discorso, che ha battuto tutti i record di precedenti azioni ostruzioniste, si è focalizzato soprattutto su contrappesi che un sistema democratico dovrebbe garantire per limitare il potere del presidente, ed è stato anche criticato per l’assenza di riferimenti ai massacri perpetrati da Israele a Gaza e supportati da Donald Trump. Tuttavia, il discorso di Cory Booker, con tutti i limiti del caso, ha dimostrato qualcosa di importante: esistono anche dei parlamentari moderati, che in tempi normali non sarebbero molto diversi da dei moderati repubblicani, ma che oggi sono decisi a costruire un’opposizione all’attuale amministrazione.
Un altro tassello di questa opposizione a Trump e alle sue politiche di sistematica violazione dei diritti umani è arrivato dal cuore del sistema universitario americano. Dopo aver tagliato fondi a università del calibro della Columbia o della University of Pennsylvania, entrambe parte della Ivy League, Donald Trump ha deciso di attaccare Harvard, l’università più prestigiosa degli USA, minacciando di tagliare 7 miliardi di fondi pubblici destinati dal Congresso all’ateneo. Harvard, a differenza della Columbia e altre università, non solo non si è piegata ai diktat di Washington, ma ha contrattaccato, intentando una causa legale contro l’amministrazione. Galvanizzate dalla scelta di Harvard, decine di altre università statunitensi hanno deciso di unirsi alla resistenza, firmando un documento in difesa dell’indipendenza del sistema universitario statunitense. Da questo momento, il tycoon ha rivolto un attacco frontale contro gli studenti internazionali, che sono estremamente importanti nel sistema universitario statunitense: l’ultima misura che mira a impedire agli studenti internazionali di entrare fisicamente negli Stati Uniti è la sospensione da parte di tutte le ambasciate USA nel mondo dei colloqui per la richiesta di visti F1, M1 e J1, solitamente richiesti da studenti di Master e Dottorato. Un ban che dura tutt’ora, e che si affianca al più recente divieto parziale o totale di accesso negli Stati Uniti per i cittadini di parecchi stati, fra cui Haiti, Sudan, Somalia, Cuba e Venezuela. In questo documento, Cuba viene definito «Stato sponsor del terrorismo».
Le manifestazioni del Primo Maggio
L’ultimo, importante esempio dello sviluppo di una reale e organizzata opposizione di piazza ai repubblicani – prima degli eventi di Los Angeles di questi giorni – arriva dal Primo Maggio che, nonostante non sia la festa ufficiale dei lavoratori negli USA (il Labor Day è il primo lunedì di settembre) ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone in molte delle principali località del Paese. Alla testa di queste manifestazioni si trovavano non solo i sindacati, dai più combattivi ai più concertativi e tradizionali come AFL-CIO, ma anche associazioni per la libertà di parola, per i diritti dei migranti, delle donne e del movimento LGBTQ+, fra le categorie più colpite dalle politiche della nuova amministrazione Trump. «Stiamo portando la lotta in casa dei miliardari e dei politici che cercano di dividerci con la paura e le bugie», ha dichiarato April Verrett, presidente del Service Employees International Union, sindacato che rappresenta 2 milioni di lavoratori. A questi avvenimenti sta facendo seguito, ora, la grande mobilitazione in decine di città (non solo Los Angeles, ma anche San Diego, Minneapolis, New York) contro gli arresti arbitrari e le deportazioni organizzate dalle retate dell’ICE, che assomiglia ogni giorno di più a una sorta di polizia politica dell’amministrazione Trump.
Insomma, in questi primi mesi di amministrazione “trumpiana”, al di là dei tanto sbandierati “risultati”, gli Stati Uniti non hanno soltanto visto un attacco frontale ai diritti umani, deportazioni di massa, dazi imposti a tutti i paesi del mondo – perfino a isole abitate solo dai pinguini – e un’economia in crollo verticale dopo queste azioni del governo. Si è sviluppato – e si sta sviluppando – un imponente movimento di massa che si oppone alla deriva autoritaria del Paese. Resta da vedere se queste tante e diverse lotte sapranno coordinarsi, come accaduto nel caso di Hands Off, o se finiranno per smorzarsi sotto i colpi della repressione.
Davide Longo