Tra sabato e domenica 10 e 11 maggio si sono tenuti a Ginevra i trade talks tra Cina e Stati Uniti: un incontro cruciale volto a disinnescare una guerra commerciale che minaccia di destabilizzare l’economia globale. I negoziati, ospitati nella residenza recintata dell’ambasciatore svizzero presso le Nazioni Unite con vista sul Lago di Ginevra, rappresentano il primo faccia a faccia di alto livello tra le due superpotenze da quando il conflitto commerciale si è intensificato.
I colloqui si sono articolati in due sessioni, una mattutina e una pomeridiana separate da un pranzo, e hanno visto la partecipazione di figure di spicco. La delegazione cinese è stata guidata dal vice-premier He Lifeng, il principale referente economico di Pechino, mentre gli Stati Uniti sono stati rappresentati dal segretario al Tesoro Scott Bessent, affiancato dal rappresentante per il commercio Jamieson Greer. L’atmosfera, secondo fonti diplomatiche, è stata tesa ma pragmatica, con entrambe le parti consapevoli dell’urgenza di trovare un terreno comune.
Lunedì, Pechino e Washington si sono espresse con favore in una dichiarazione congiunta: He Lifeng ha definito i colloqui «approfonditi e costruttivi», ricordando che la Cina «non si piegherà» qualora i toni statunitensi dovessero rialzarsi. Questo è il punto: l’accordo è temporaneo. Per novanta giorni i dazi americani verranno ridotti dal 145 al 30%, mentre quelli cinesi dal 125 al 10%. Rimangono i dazi al 20% che gli USA avevano imposto sulle merci legate all’esportazione di fentanyl.
«Non abbiamo intenzione di far male alla Cina» ha detto il presidente Donald Trump, alludendo al fatto che, nella sua visione, la parte debole è proprio Pechino. «Avevano molti disordini interni ed erano molto felici di poter fare qualcosa con noi per rimediarvi» ha aggiunto.
L’esito delle contrattazioni, ha insomma riportato i valori dei dazi vicino a quelli già in vigore prima dell’apice della Trumponomics, cioè il “Liberation Day” del 2 aprile.
Il Segretario al Tesoro Scott Bessent, parlando in una conferenza stampa, ha sottolineato l’interesse comune emerso dai colloqui: «Entrambe le parti scongiurano un disaccoppiamento commerciale».
La Cina ha annunciato la sospensione o la revoca di alcune contromisure adottate in risposta all’aumento delle tariffe doganali statunitensi. All’inizio di aprile, Pechino aveva imposto restrizioni all’esportazione di terre rare e magneti, componenti essenziali per l’industria automobilistica, aeronautica e dei semiconduttori.
Bessent ha suggerito che i due paesi potrebbero esplorare accordi per incrementare gli acquisti cinesi di prodotti americani, una mossa che potrebbe ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina. L’intesa segna una svolta dopo mesi di stallo che avevano paralizzato gran parte degli scambi bilaterali, con molte aziende americane che avevano sospeso gli ordini in attesa di un possibile abbassamento delle tariffe.
Le fabbriche cinesi, duramente colpite dal calo degli ordini americani, hanno cercato di compensare espandendo il commercio verso il Sud-est asiatico e altre regioni per aggirare le tariffe. Bessent ha definito le misure protezionistiche un “embargo di fatto”— un esito indesiderato da entrambe le parti. Anche il calo del PMI manifatturiero a 49 (sotto la soglia di espansione) e il crollo degli ordini esteri a 44,7 indicano una vulnerabilità del sistema produttivo cinese.
Secondo Mark Williams, capo economista per l’Asia di Capital Economics, l’accordo rappresenta «un ulteriore passo indietro dalla postura aggressiva dell’amministrazione Trump». Tuttavia, ha avvertito che l’intesa non include impegni specifici da parte della Cina su questioni come la valuta o gli squilibri commerciali, e che la tregua di 90 giorni potrebbe non condurre a un accordo duraturo, soprattutto se gli Stati Uniti continueranno a spingere per coalizioni internazionali contro il commercio con la Cina. Difatti si parla di sospensione dei dazi imposti in aprile, non una totale eliminazione degli stessi.
Nel delineare i contorni dell’accordo, Scott Bessent e il rappresentante commerciale statunitense Jamieson Greer hanno scelto un approccio cauto, evitando di provocare la Cina. Al contrario, hanno puntato il dito contro l’amministrazione Biden, accusandola di aver ignorato il persistente squilibrio commerciale tra le due nazioni e di aver così alimentato la guerra tariffaria. Bessent ha proposto una visione collaborativa per riequilibrare le economie dei due paesi. «Gli Stati Uniti possono rilanciare il loro settore manifatturiero,” ha dichiarato, “mentre la Cina potrebbe ridurre la sua sovrapproduzione. In questo modo, possiamo sostenerci a vicenda verso un equilibrio più stabile».
La narrativa di Xi
Le ultime settimane hanno visto un botta e risposta pubblico tra le due potenze. La Casa Bianca ha più volte affermato di essere in contatto con funzionari cinesi, ma Pechino ha smentito categoricamente che tali colloqui avessero luogo. Inizialmente, la Cina ha reagito con durezza alle tariffe punitive dell’era Trump: lo scorso mese, Mao Ning, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha pubblicato su X un video di un discorso di Mao Zedong pronunciato durante la Guerra di Corea — nota in Cina come la “Guerra per Resistere all’Aggressione Americana e Aiutare la Corea” — in cui il leader affermava: «Non importa quanto durerà questa guerra, non ci piegheremo mai». Xi ha anche consolidato il controllo sulla propaganda, intensificando nelle ultime settimane gli sforzi per mobilitare il sostegno pubblico a una “lotta” prolungata: un altro video del Ministero degli Esteri intitolato “Mai inginocchiarsi!” (diverso da quello pubblicato da Mao Ning, ma simile nei contenuti e nel richiamo a Mao Zedong) è un chiaro messaggio di sfida per unire la nazione sotto la bandiera del patriottismo. Grazie alla sua autorità centralizzata, Xi può imporre cambiamenti politici radicali senza opposizioni, una flessibilità che, secondo Zongyuan Zoe Liu, gli permette di adattarsi rapidamente. Anche un eventuale ritiro tattico nella guerra commerciale potrebbe essere trasformato in un trionfo su Donald Trump, rafforzando la sua immagine di leader inflessibile.
Pechino ha voluto presentare la sua partecipazione ai negoziati di Ginevra non come una resa alle pressioni tariffarie di Trump, ma come una mossa pragmatica per scongiurare una escalation. Il Ministero del Commercio cinese ha sottolineato che l’intesa «risponde agli interessi di entrambe le nazioni e al bene comune del mondo».
Dall’annuncio delle tariffe, la Cina aveva risposto sospendendo le importazioni di sorgo, pollame e farina di ossa da aziende americane e inserendo 27 società statunitensi in una lista di restrizioni commerciali. Lunedì, pur accettando di revocare le misure punitive adottate nell’ultimo mese, diverse entità cinesi — tra cui il Ministero del Commercio e il Ministero della Sicurezza di Stato — si sono riunite per valutare come rafforzare i controlli sulle esportazioni di minerali strategici, segnalando una postura ancora vigile.
Xi ha peraltro continuato ad esporre la sua narrativa solidale con i paesi del Global South. In occasione del forum Cina-CELAC, un incontro tra Cina e i paesi dei Caraibi e dell’America Latina, Xi ha ricordato che «il mondo sta attraversando un secolo di rapidi cambiamenti, con molteplici rischi che si aggravano sempre più. Solo attraverso la solidarietà e la cooperazione i paesi possono mantenere la pace e la stabilità nel mondo» aggiungendo che «la Cina concorda sul fatto che l’America Latina attuerà congiuntamente l’iniziativa di sviluppo globale e proteggerà fermamente il sistema commerciale multilaterale. È importante mantenere la stabilità e il flusso regolare delle catene industriali e di approvvigionamento globali e mantenere un ambiente internazionale aperto e cooperativo».
La Cina ha inoltre stanziato dei fondi di credito di 66 miliardi di yuan (poco più di 9 miliardi di dollari), rafforzato la cooperazione tra le forze dell’ordine e compiuto un altro passo nella realizzazione del progetto maoista di leadership del terzo mondo: un progetto che risale ai tempi della Conferenza di Bandung, Indonesia, 1955. Peraltro, i tentativi di espansione della propria influenza, collimano con le intenzioni di Trump, il quale aveva di recente avviato delle politiche di dialogo con alcuni di questi paesi: l’amicizia ormai fraterna con El Salvador e con l’Argentina, gli accordi con Panama e le sempre più chiare intese con Maduro.
L’intera vicenda, ad ogni modo, ha mostrato i limiti dell’agire come attore forte, talvolta percepito come prepotente anche dai suoi alleati europei: Trump, qualunque siano i suoi intenti, ha fatto un assist a Xi per presentarsi, in accordo con le politiche cominciate da Jiang Zemin, a cavallo degli anni ‘90 e i primi del 2000, come un paese responsabile, che per garantire un ritorno a un mondo consapevole ha deciso di tornare al dialogo e sospendere i rancori. Anche in casa, la narrazione del PCC non è differente. E l’apprezzamento dei cinesi non manca.
Uno sguardo agli scenari futuri
La riduzione dei dazi non elimina le cause profonde del conflitto, come le accuse statunitensi di pratiche commerciali sleali cinesi o la questione del fentanyl, su cui persiste una tariffa del 20%. Un fallimento nel raggiungere un accordo definitivo entro la scadenza potrebbe riaccendere tensioni, con ripristino dei dazi al 145% e nuove ritorsioni, come lo stesso Trump ha previsto di fare.
Le dichiarazioni di Bessent sul volere un «commercio più equilibrato, non un disaccoppiamento», lasciano spazio a un ridimensionamento degli scambi in vari settori strategici. Gli USA potrebbero mantenere dazi settoriali elevati, come quelli sui beni tecnologici, spingendo la Cina ad accelerare l’autosufficienza in quest’ambito – un processo che è già iniziato e per il quale la riunificazione con Taiwan rappresenta una tappa fondamentale. Questo scenario implicherebbe una sostanziale riduzione del commercio bilaterale, già sceso da 586 miliardi di euro nel 2023 a 582,4 miliardi nel 2024 e una conseguente riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, con costi aggiuntivi proibitivi per le imprese globali.
Inoltre rimangano aperte le dispute territoriali e militari, come nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan, oltreché a differenze ideologiche chiare a tutte. Ciononostante, con la definizione di “reset delle relazioni”, l’amministrazione americana pare essere cautamente ottimista. Un modello che potrebbe essere applicato anche al mercato cinese, è quello basato sul recente accordo col Regno Unito, il quale mantiene i dazi reciproci al 10%, ma elimina i dazi sull’alluminio e l’acciaio, introducendo piuttosto una soglia sulle importazioni di auto inglesi. Lo stesso Trump ha suggerito che il modello di accordo sembra essergli assai gradito e, forse, replicabile.
Luciano Campisi