Scriveva il pedagogista e poeta polacco Janusz Korczack ucciso a Treblinka nel 1942 che è faticoso stare con i bambini perché obbliga «a innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi».
Questo chiama a fare “Genocidio” di Rula Jebreal (Piemme), giornalista di Gerusalemme. Un libro scritto come «documento storico», spiega l’autrice alla presentazione organizzata dalla senatrice Alessandra Maiorino presso la Sala stampa del Senato, che parte proprio dai bambini. Il volume si apre con l’uccisione nell’ottobre 2023 di Wadea Al-Fayoume, 6 anni, palestinese di Chicago, vittima di un crimine razzista.
Anche Hind Rajab aveva 6 anni quando, a Gaza, viene trovata crivellata di colpi in macchina, insieme alla sua famiglia. «Sono spaventata, ho paura, vi supplico, per favore venite», dice al telefono chiamando l’ambulanza, che verrà bloccata dal fuoco israeliano e non potrà fare nulla per salvarla.
Secondo i dati del Ministero della Salute palestinese, in 600 giorni di guerra sono rimasti uccisi più di 16 mila bambini e adolescenti, quasi 60 mila gli uccisi in totale, 124 mila i feriti. Secondo la rivista Lancet, scrive Jebreal, sarebbero molti di più.
Il genocidio non è un’opinione
«Genocidio è, innanzi tutto, un termine giuridico», ha chiarito la giurista Chantal Meloni durante la presentazione del libro. Il termine, coniato nel 1944 dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin dopo aver osservato lo sterminio del popolo armeno, è stato adottato dall’Onu con la Convenzione omonima del 1948 in seguito all’esigenza di avere strumenti giuridici e politici dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Continua Meloni: «A Gaza si sta verificando quanto descritto dalla convenzione adottata dall’Onu». Ovvero: uccisione dei membri di un gruppo, lesioni gravi alla sua integrità fisica o mentale, il fatto di sottoporlo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale, l’imposizione di misure finalizzate a prevenire le nascite, il suo trasferimento forzato. Sono numerosi i rapporti che confermano che le intenzioni di Israele sono genocidiarie. Lo confermano anche Amnesty International e diversi osservatori indipendenti.
Aryeh Neier, fondatore di Human Rights Watch, ebreo nato a Berlino obbligato a fuggire dal regime nazista, sostiene che quello palestinese sia genocidio per le numerose dichiarazioni del governo di Israele, per l’uso della fame come arma di annientamento del popolo palestinese e per la violazione di Rafah, unica zona considerata sicura.
Gaza, cimitero del diritto internazionale
Chantal Meloni sostiene che non solo gli stati occidentali hanno fallito nella prevenzione del genocidio, ma continuano ad ignorare gli studi approfonditi che, dal 2004, vengono pubblicati su quanto accade in Palestina. A testimonianza che l’azione di Israele non è iniziata con il 7 ottobre, ma dura “da un secolo”, come scrive Jebreal.
Nel luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia ha infatti dichiarato che «l’intera occupazione militare del territorio palestinese è illegale e deve cessare il più rapidamente possibile». Gli Stati dell’Onu non solo non hanno fatto nulla in questo senso, ma il governo israeliano ha anzi accelerato il suo piano d’espansione, approvando 22 nuovi insediamenti, il che, secondo la Bbc, costituisce una delle più grandi espansioni dello stato da decenni.
Afferma Jebreal che il genocidio avviene con la complicità dell’Occidente, senza il quale la sua attuazione non sarebbe possibile. «L’anno scorso» spiega la giornalista «Israele ha ricevuto 24 miliardi di dollari da parte degli USA». Anche gli accordi commerciali con l’Unione Europea proseguono indisturbati, sebbene le clausole specifichino che essi possono avere luogo solo se i prodotti – le armi, nel caso specifico – venduti non servano a violare i diritti umani. In caso contrario, devono essere sospesi e richiamati.
Josh Paul è il primo ufficiale statunitense a dare le dimissioni proprio per questa ragione. Dopo decenni di servizio, l’uomo si rende conto che Israele viola gli accordi commerciali, utilizzando le armi per trasgredire i diritti umani. Decide così di denunciare pubblicamente ciò che accade, esibendo prove fotografiche sull’origine americana delle bombe.
«Stati Uniti, Germania e Italia sono gli stati dove si producono le bombe che vengono lanciate a Gaza» denuncia Jebreal. Il trattato di cooperazione tra Italia e Israele si rinnoverà tacitamente il prossimo 8 giugno.
Il sistema sanitario al collasso
Mark Perlmutter è un chirurgo ebreo americano che ha lavorato per il Gaza European Hospital. Intervenuto al Senato, ha raccontato che i bambini, a Gaza, non vengono uccisi, ma giustiziati. “Nessun bambino viene colpito alla testa due volte per errore”, ha denunciato. “Nella mia carriera di medico di guerra non ho mai visto ciò cui ho assistito a Gaza”. Durante le operazioni, Perlmutter estraeva proiettili che recavano la dicitura “made in USA”. Ha deciso così di denunciare tutto pubblicamente alle telecamere della Cbs.
La diffusione di un video dell’esecuzione di alcuni paramedici da parte dell’esercito israeliano ha aiutato a fare luce sulla sorte dei dottori che prestano servizio in quelle zone.
Eppure, denuncia Perlmutter, c’è altro di cui non si parla: «Sono 350 i medici detenuti dal governo israeliano senza capi di accusa». Continua: «Un medico a Gaza, specializzato nelle fratture delle ossa dei bambini è stato minacciato, torturato e stuprato da una soldatessa dell’IDF con un ortaggio».
I 1400 medici uccisi a Gaza si aggiungono agli ospedali bombardati, alle medicine che mancano, alle operazioni senza anestesia, come denunciato da The Lancet e dalla rete Sanitari per Gaza.
«Il massacro è accuratamente incentrato su bambini, operatori sanitari e giornalisti – aveva dichiarato Perlmutter alla Cnn ad agosto – ovvero i cittadini più vulnerabili tra gli innocenti, chi può prendersi cura di loro, e chi può denunciare al mondo questo deliberato eccidio di massa».
Contro la congiura del silenzio
«Si vendicano di noi attraverso i nostri figli», ha dichiarato il giornalista Wael Al-Dahdouh, la cui famiglia è stata quasi del tutto distrutta dall’esercito israeliano. I bambini, di nuovo. Ha ricordato la giornalista Federica D’Alessio, che del volume di Jebreal ha curato l’editing, che «a Gaza, nell’ultimo anno e mezzo sono morti un numero di giornalisti (circa 230) superiore a quello dei giornalisti uccisi durante le due guerre mondiali, la guerra nel Vietnam, dei Balcani, in Afghanistan messi insieme». Per questo scopo, ricorda D’Alessio, 200 giornalisti italiani hanno firmato un appello “Contro la congiura del silenzio” sul genocidio a Gaza pubblicato a pagamento su Repubblica. Un silenzio dovuto al divieto, per i giornalisti non israeliani, di entrare a Gaza a verificare se le informazioni fornite dall’esercito israeliano o da Hamas fossero vere o meno. Così, le testate giornalistiche hanno accettato che la propaganda divenisse informazione, continua D’Alessio, hanno bandito parole come genocidio e Palestina, inventato il termine “pro Pal”, alterato termini come “antisemitismo”, con il risultato paradossale di rivolgere l’accusa contro altri ebrei contrari ai piani di Israele.
In questo mondo al contrario, allora, non sembra strano che Daniella Weiss, fondatrice di Nachala, movimento per la colonizzazione, organizzi delle gite in barca con famiglie e bambini al seguito durante i bombardamenti su Gaza per mostrare loro dove sorgeranno i nuovi insediamenti. Alla fine di queste gite, spesso vengono organizzati dei barbecue. Racconta Jebreal: «Dall’altra parte del confine, dove i bambini muoiono di fame, un bambino palestinese che non mangiava altro che 30 grammi di riso al giorno ha detto: “Se muoio oggi sono felice perché almeno ho sentito l’odore del pollo».
“Genocidio” parla al mondo occidentale, che si volta dall’altra parte mentre tutto ciò accade. Scrive Jebreal: «Dopo una vita trascorsa a interrogarmi, personalmente e professionalmente, su come il mondo abbia potuto permettere catastrofi come l’Olocausto, ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata, a migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei».
Serena Ganzarolli