Donald Trump contro la cultura

Donald Trump contro la cultura

Un altro duro colpo arriva da Donald Trump al mondo americano dell’istruzione e della cultura: il presidente ha revocato il permesso di ammettere nell’ateneo studenti provenienti dall’estero. Dopo aver tagliato di recente diversi miliardi di finanziamenti. Tutti gli studenti stranieri già presenti nel più celebre college al mondo dovranno così cambiare università.

È solo l’ultimo dei provvedimenti di una crociata contro la cultura che Donald Trump ha intrapreso dall’inizio del suo mandato. La mattina del 3 aprile 2025, il mondo si è svegliato dinnanzi a una notizia che ha del demenziale: Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, dichiara guerra a una colonia di pinguini. 

© Matt Curnock per la Australian Antarctic Division, colonia di pinguini reali
© Matt Curnock per la Australian Antarctic Division, colonia di pinguini reali

Donald Trump al Kennedy Center

Un’altra mossa controversa, e sottovalutata nella cronaca, si è verificata il 14 febbraio: in quella data Trump si è preso il comando totale del Kennedy Center. Si tratta della struttura teatrale più attiva di tutti gli Stati Uniti, costruita negli anni sessanta.

Trump ha fatto sostituire tutti i membri del consiglio d’amministrazione, assegnando a sé stesso il titolo di direttore. Tra le idee che ha proposto c’è un’iniziativa per assegnare premi alle figure morte dell’intrattenimento: proposti nomi come Elvis Presley e Luciano Pavarotti. 

Nel dicembre del 2017, gli artisti del Kennedy Center – inclusi Gloria Estefan e Lionel Richie – hanno protestato contro il primo mandato Trump durante il premio annuale del centro, i Kennedy center Honors. Hanno vestito collari con i colori della bandiera arcobaleno, simbolo della comunità queer; e Norman Lear, produttore televisivo insignito del premio alla carriera, ha compiuto un discorso diretto a Trump in maniera esplicita. «Abbiamo alla Casa Bianca qualcuno a cui non importa dell’arte e dell’umanità. Credo che abbia fatto bene a stare lontano e fuori città».

Donald Trump, violando la tradizione presidenziale, non è stato presente a quella premiazione. Adesso, come presidente del centro, è sua priorità assicurarsi che ci siano in giro musical non “totalmente woke” che possano essere rappresentati. 

«Niente più drag shows, o altra propaganda anti-Americana», ha scritto Trump sul social network di sua proprietà, Truth. E, in un video, proclama il suo intento verso la scelta teatrale del “suo” Center. «Ci assicureremo che non sia woke. Non c’è più woke in questo paese. Questo woke ci è costato il nostro denaro e la nostra reputazione». 

Tra le stelle del Center che si sono tirate fuori dalla sua amministrazione dopo la presa di potere di Trump figurano la comica e sceneggiatrice Issa Rae, il soprano Reneé Fleming e il cantautore Ben Folds. E con loro la sceneggiatrice televisiva Shonda Rhimes, la mente dietro Bridgerton e Grey’s Anatomy.

Resistenza a sorpresa: il caso Finn

Ma la voce di resistenza più inaspettata e collettiva viene da un intero cast: quello di Finn, un nuovo musical per bambini.

Creato da Michael Kooman e Christopher Dimond, e dalla sceneggiatrice per l’infanzia Chris Nee (Dottoressa Peluche, Vampirina), lo spettacolo è ambientato in un mondo oceanico e vede protagonista un giovane squalo poco votato alla violenza. Nelle parole degli sceneggiatori, la vicenda è una metafora esplicita per l’esperienza LGBT+. 

Tre ore dopo l’ascesa di Trump a direttore, gli sceneggiatori sono stati contattati al telefono. Lo spettacolo era stato cancellato “per motivi puramente finanziari”.

Il trio si sfoga sui social: «Noi non abbiamo chiesto che questo spettacolo, bomba di gioia, fosse parte della resistenza, eppure eccoci qui. Nel suo cuore ha un messaggio universale di amore e accettazione. Il fatto che si espanda ai ragazzi glitterati sembra controverso».

Scena dal trailer di Finn

Proseguono con «nonostante non sia una sorpresa considerando gli eventi della scorsa settimana, è un dolore. Ma noi non saremo zittiti. E non abbandoneremo i bambini per i quali è stato scritto questo spettacolo. Sono già sotto attacco da tutti i lati. […] Eravamo così eccitati che altri bambini si sarebbero rivisti nel mondo di Finn e avrebbero saputo che sono perfetti così come sono. La resistenza inizia qui – con uno squalo che vuole far uscire il suo pesce interiore». 

E con lei lo stellato cast di Finn, che ha trasferito lo spettacolo alla New York Hall. 

Al di fuori del Kennedy Center, il sito della Casa Bianca compie altre dichiarazioni per il duecentocinquantesimo compleanno dell’America. Si tratta del 4 luglio 2026, esattamente duecentocinquant’anni dopo la firma della Dichiarazione d’Indipendenza.  Notevole la proposta di costruire un “Giardino Nazionale degli Eroi Americani”, che encomierebbe duecentocinquanta figure che hanno contribuito alla fondazione dello Stato americano.  

Il terrore del DEI

La parola-nemico della destra, nel 2025, è in realtà una sigla: DEI. Acronimo di Diversity, Equity, Inclusion, essa viene utilizzata in maniera simile al precedente “woke”, per indicare quelle che dovrebbero essere misure di “inclusione forzata” che guardano unicamente all’identità, senza considerare le doti personali e la meritocrazia. 

I programmi di DEI, utilizzati in agenzie, uffici pubblici e brand, stanno ora venendo eliminati uno ad uno. Già alcune compagnie li avevano rimossi prima dell’installazione di Trump come presidente, quali la compagnia motociclistica Harley Davidson, la ditta automobilistica Ford, e quella aerea Boeing. Dopo il 5 novembre 2024 si sono aggiunti Walmart, Meta, Amazon, Target. Persino l’FBI, in una dichiarazione a Forbes, ha annunciato di voler ritirare le sue iniziative di inclusione. 

Ma il vituperato DEI non si riflette solo in ambito commercial e pubblicitario. Molto colpiti dalla sua scomparsa sono anche i collegi d’America: un articolo di AP news del mese di marzo rivela che almeno cinquanta diverse università sono sotto investigazione da parte dell’Amministrazione Trump per supposta “discriminazione razziale” e “preferenze basate sulla razza”. Il provvedimento colpisce anche università di grande prestigio, quali Yale e il MIT, oltre alla già citata Harvard.

Mano forte all’Università

Ma di tutti i college americani è in particolare la Columbia University, localizzata a New York, a rappresentare il baluardo dell’opposizione. L’amministrazione Trump, in una serie di misure sempre più stringenti in ambito di cittadinanza. Centinaia di studenti, tra internazionali e visitatori, hanno visto la loro visa cancellata. Nelle parole di Marco Rubio, segretario di stato, gli studenti internazionali sono «qui per andare a lezione, non per guidare movimenti di attivisti». 

Sono anche stati assunti nuovi ufficiali di sicurezza sul campus, addestrati specificamente per gestire le proteste, e con potere di arresto. Chi verrà colto in flagrante non potrà più indossare coperture facciali, incluse le mascherine antibatteriche. 

Durante il 2024, molti studenti della Columbia hanno protestato apertamente sul terreno del campus contro il genocidio del popolo Palestinese: ora, sotto le crescenti ripercussioni, molti studenti si ritirano dalle proteste.

E se le misure di sicurezza aumentano, scompaiono i fondi. L’amministrazione Trump ha sospeso e sospenderà milioni di dollari in fondi di ricerca da altri college importanti: duecentodieci da Princeton, cinquecentodieci dalla Brown, nove miliardi da Harvard. E la possibilità che altri college siano colpiti silenzia le proteste e la controcultura. 

Nelle parole della professoressa Veena Dubal, consigliera generale presso l’Associazione Americana per Professori Universitari (AAUP), «gli amministratori universitari sono terrorizzati di perdere milioni e miliardi di dollari di fondi. C’è molta autocensura in corso». 

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