Con Trump riprendono le esecuzioni dei condannati alla pena capitale

Con Trump riprendono le esecuzioni dei condannati alla pena capitale

Il 10 giugno alle sei di sera Anthony Wainwright, che da oltre vent’anni si trovava nel braccio della morte nel carcere di Starke, in Florida, è stato ucciso tramite iniezione letale. È la sesta esecuzione nello Stato in tutto il 2025, un numero impressionante se si pensa che nel 2024 in Florida è stata effettuata una sola esecuzione. L’evento – contro il quale la American Civil Liberties Union (ACLU) aveva presentato un’istanza alla Corte Suprema, rimasta inascoltata – arriva in un momento in cui, con la presidenza Trump, la pena di morte sembra essere tornata al centro dell’agenda politica repubblicana: ad esempio il 31 marzo scorso il procuratore generale degli Stati Uniti Pam Bondi ha chiesto la pena di morte per Luigi Mangione accusato dell’assassinio del CEO di United Healthcare Brian Thompson il 4 dicembre 2024 nel pieno centro di Manhattan. La stessa Pam Bondi non è nuova a questo tipo di giustizialismo: con un passato da democratica ma avvicinatasi negli ultimi vent’anni sempre più alle posizioni della destra repubblicana, Bondi è stata la prima italoamericana a diventare procuratore generale degli Stati Uniti e prima ha ricoperto lo stesso ruolo nello Stato della Florida, del quale è originaria. Sotto la sua giurisdizione, fra il 2011 e il 2019, sono state eseguite dallo Stato della Florida trenta condanne a morte, mentre attualmente altre 275 persone sono detenute nel braccio della morte in attesa di esecuzione.

La pena di morte negli Stati Uniti

La pena di morte è un istituto profondamente radicato nella storia statunitense. Gli USA sono ancora oggi uno dei 55 Stati al mondo in cui la pena di morte è legale, dato che non hanno mai applicato la moratoria delle Nazioni Unite approvata nel 2007. Al 2024, i 50 Stati USA si dividono in 23 stati abolizionisti, 12 in moratoria de iure o de facto, uno che la mantiene in casi eccezionali (l’Ohio) e 15 che mantengono la pena di morte a pieno regime, ben integrata nel sistema giudiziario locale. Le spinte abolizioniste risalgono già ai primi anni dell’esistenza degli USA, con la Pennsylvania che limitò fortemente la pratica nel 1794 e il Michigan che la eliminò dal proprio ordinamento giuridico nel 1846. Tuttavia, mentre numerosi Stati hanno via via optato per l’abolizione, la pena di morte è prevista e ancora regolarmente praticata in Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Carolina del Sud, Dakota del Sud, Idaho, Indiana, Mississippi, Missouri, Nebraska, Oklahoma, Tennessee, Texas. Fra il 1977 e il 2024 gli Stati Uniti hanno eseguito 848 condanne a morte, delle quali 677 tramite iniezione letale, 150 con la sedia elettrica, 11 con l’utilizzo della camera a gas, 5 per mezzo di soffocamento da azoto e 2 per fucilazione, sistema ancora legale in Utah e in Oklahoma. Ad oggi, più di duemila persone vivono nel braccio della morte, attendendo l’esecuzione della propria condanna. Anche livello federale la pena di morte è prevista per alcuni tipi di reati, e la condanna alla pena capitale per i minorenni è stata vietata soltanto nel 2005.

Il caso georgiano e le elezioni del 1988

Fra i motivi principali in favore dell’abolizione della pena di morte negli USA troviamo la questione etnica, particolarmente sentita negli Stati Uniti ancora oggi, soprattutto negli stati del sud. In questo senso, il caso della Georgia è estremamente rappresentativo, e ci racconta anche come la pena di morte sia un argomento che ha influito sull’orientamento dell’opinione pubblica in fatto di elezioni.

Siamo nel 1987: dopo una lunga causa, la Corte Suprema decide di annullare la condanna a morte di Warren McCleskey, comminata da una giuria della Georgia. Per la Corte Suprema McCleskey era sì colpevole dei reati attribuitigli – rapina a mano armata e omicidio – ma la sua condanna aveva avuto, citando il provvedimento, «un impatto eccessivo a livello razziale». In buona sostanza, la Corte aveva analizzato oltre 2500 casi simili esaminati da una giuria in Georgia, e aveva concluso che le sentenze di condanna a morte erano spesso state viziate da una pregiudiziale razziale della giuria (sistematicamente a prevalenza bianca). Questo condizionamento si è riproposto anche in anni più recenti. Secondo una ricerca dell’Università del Maryland, risalente al 2003, gli afroamericani rappresentano circa il 12% dell’intera popolazione statunitense ma costituiscono il 42% dei detenuti in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte: non perché commettono più reati, sia chiaro, ma perché è molto più probabile che vengano condannati alla pena capitale rispetto a criminali bianchi. Inoltre, le vittime degli omicidi sono bianche e nere in parti praticamente uguali a livello statistico, ma dal 1977 i condannati giustiziati sono, nell’82% dei casi, responsabili dell’uccisione di un bianco.

Tuttavia, questa sentenza epocale della Corte Suprema – che avrebbe potuto dare una grande spinta al movimento abolizionista – venne invece messa in ombra dalla campagna elettorale per le presidenziali del 1988. In quell’anno si contesero la carica George Bush padre, per i repubblicani, e il democratico Michael Dukakis. Buona parte della campagna elettorale di Bush si basò sulla critica dell’operato di Dukakis come governatore del Massachusetts: Dukakis aveva infatti sostenuto un ampio programma di permessi per buona condotta riservati anche a detenuti condannati per omicidio, in ottica rieducativa. Uno di questi detenuti, William Horton, aveva approfittato di questi permessi per compiere altri reati, fra cui stupri e omicidi. Anche se ovviamente Dukakis non aveva nulla a che fare direttamente con la vicenda, venne presentato come il difensore dei diritti dei peggiori criminali, in quanto era fermamente contrario alla pena di morte, e dunque venne definito dai repubblicani come inaffidabile e ineleggibile alla carica di presidente. Fu anche grazie a questo tipo di campagna elettorale che George Bush riuscì a vincere le elezioni e a diventare presidente degli Stati Uniti.

I tentativi di moratoria a livello federale

Nonostante la pena di morte goda di un certo sostegno in una parte dell’opinione pubblica statunitense, per varie volte negli Stati Uniti si è provato a raggiungere una moratoria, ossia un blocco vero e proprio delle esecuzioni in tutto il territorio federale, considerata l’anticamera per l’abolizione della pratica. Ad esempio, nel 1972, al culmine degli anni della contestazione, la Corte Suprema impose a tutto il territorio federale una moratoria, nella quale la fine della segregazione razziale negli ex Stati confederati ebbe un ruolo centrale. Tuttavia, sotto la pressione di buona parte dell’establishment repubblicano e della presidenza Gerald Ford – poi battuto nelle elezioni dello stesso anno dal democratico Jimmy Carter – la Corte Suprema nel 1976 dichiarò costituzionale la pena di morte, cosa che portò al suo ripristino. L’ultimo tentativo di moratoria è invece piuttosto recente, e risale al 2021, quando Joe Biden insieme al suo entourage alla Casa Bianca decise di bloccare le esecuzioni a livello federale per tutta la durata del proprio mandato. Un orientamento, quello dei democratici, confermato anche da uno degli ultimi decreti di Biden, a elezioni già avvenute, che alla fine del 2024 ha commutato 37 delle 40 condanne pendenti a livello federale dalla pena di morte all’ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola.

L’inversione di tendenza di Donald Trump

La nuova presidenza Trump ha messo in chiaro che ci troviamo di fronte ad una inversione di tendenza. Già si era avuto un assaggio del cambiamento di passo sotto la prima amministrazione Trump: dal 1963 al 2016 si erano avute soltanto due esecuzioni capitali, entrambe sotto l’amministrazione di George W. Bush. Durante il primo mandato Trump, nonostante la pandemia e alcuni problemi burocratici, si sono avute invece ben 13 esecuzioni. Questa dinamica è stata ripresa anche in questi ultimi mesi dalla nuova amministrazione. Il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, uno dei primi decreti di Trump ha riguardato proprio l’implementazione della pena di morte. Come si legge nel decreto, che intende obbligare i giudici federali a comminare sempre la pena di morte nei casi in cui sia prevista dall’ordinamento statunitense, secondo questa amministrazione «la pena capitale è uno strumento essenziale per scoraggiare e punire coloro che commettono i crimini più efferati e gli atti di violenza letale contro i cittadini americani.  Prima, durante e dopo la fondazione degli Stati Uniti, le nostre città, i nostri Stati e il nostro Paese hanno sempre fatto affidamento sulla pena capitale come deterrente definitivo e unica punizione adeguata per i crimini più vili.  I nostri Fondatori sapevano bene che solo la pena capitale può portare giustizia e ristabilire l’ordine in risposta a tale malvagità».

Come risultato di questo clima politico, nel mese di marzo ci sono state alcune esecuzioni in diversi stati degli USA. Il 18 marzo lo Stato della Louisiana ha eseguito la condanna a morte per asfissia di Jessie Hoffman, quarantasei anni, condannato per stupro e omicidio. Due giorni dopo, in Florida, è avvenuta l’esecuzione di Edward Thomas James, sessantatré anni, condannato per duplice omicidio. Altre esecuzioni sono avvenute in Oklahoma e Arizona, e ne sono previste almeno altre quattro per il mese di aprile. Risulta molto difficile non legare questi avvenimenti alle politiche introdotte dall’establishment di Donald Trump a partire dal giorno dell’insediamento: a dimostrarlo abbiamo, come se non bastassero gli ordini esecutivi firmati dal presidente, anche una dichiarazione di Pam Bondi, procuratore generale degli Stati Uniti dal gennaio 2025, che a proposito del caso Mangione ha dichiarato che Mangione «ha compiuto un assassinio premeditato e a sangue freddo, togliendo la vita a un uomo innocente e padre di due bambini piccoli. Dopo un’attenta valutazione, ho ordinato ai procuratori federali di richiedere la pena di morte, nell’ambito dell’agenda del Presidente Trump per fermare il crimine violento e rendere l’America di nuovo sicura».

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