«È tempo di inaugurare l’era della felicità nazionale. È tempo di ripristinare la sicurezza e la pace, di ricostruire i mezzi di sussistenza e l’economia, di far rivivere la democrazia. Sarò il presidente di tutti. Il futuro ci chiama». Quello di Lee Jae-myung assomiglia più ad un appello alla nazione che non ad un semplice discorso di insediamento. Le elezioni presidenziali si sono concluse da poche ore e lui, soprannominato il “Bernie Sanders della Corea del Sud”, è appena diventato il nuovo leader del Paese. Ha raccolto il 49,42% delle preferenze superando il rivale più temibile, Kim Moon-soo, l’uomo scelto dal Partito del Popolo per rimpiazzare il catastrofico Yoon Suk-yeol (41,15%), e distaccando notevolmente il terzo incomodo, Lee Jun-seok, del Partito della Riforma (8,34%) e ancor più gli altri candidati.
Per la Corea del Sud si apre, dunque, un nuovo capitolo e toccherà a Lee dettare il ritmo della rinascita. Già, perché Seoul deve fare i conti con innumerevoli problemi. Alcuni sono stati ereditati dalla sciagurata presidenza Yoon – come il risveglio dell’estremismo e della polarizzazione politica – altri sono invece vecchi retaggi di un sistema socio-economico che non può più affidarsi ad una crescita incentrata soltanto sui chaebol, i grandi conglomerati come Hyundai e Samsung. C’è poi un’agenda estera che richiede ingenti dosi di un pragmatismo che metta al primo posto gli interessi del popolo sudcoreano, e dunque un riequilibrio diplomatico tra l’alleato statunitense, il partner cinese e lo spauracchio nordcoreano. Il lavoro da fare è tanto e Lee dovrà rimboccarsi le maniche. Sarà in grado di farlo? Probabilmente sì, almeno a giudicare dal recente background: è sopravvissuto a varie accuse penali, ad un accoltellamento e alla legge marziale promulgata da Yoon.
Partendo dai problemi nazionali, la Corea del Sud è afflitta da una crescita economica asfittica (nel 2024 il pil è cresciuto del 2,2%) e da molteplici incertezze. Le principali? I consumi stagnanti, a loro volta conseguenza di debiti familiari elevati, prezzi immobiliari alle stelle e incertezza sul mercato del lavoro, l’eccessiva dipendenza del Paese dalle esportazioni (in primis di semiconduttori e automobili), e il lungo inverno demografico, visto che Seoul ha uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (circa 0,7 figli per donna). Queste ombre economiche hanno plasmato una società frammentata, non solo in termini di reddito – e quindi, banalmente, tra ricchi e poveri – ma anche a livello politico (sinistra contro destra), generazionale (anziani contro giovani) e persino di gender (uomini contro donne). In un Paese dove i tassi di suicidio sono tra i più alti al mondo (nel 2024 14.439, con una media giornaliera di 39,5) Lee dovrà dunque conquistare la fiducia di ampi strati della cittadinanza.
In politica estera, invece, Mr. Lee è chiamato a equilibrare con saggezza il peso geopolitico del Paese. Se l’ex presidente Yoon aveva giurato di rispondere ad ogni provocazione della Corea del Nord e si era allontanato dalla Cina per consolidare ancora di più l’alleanza con gli Stati Uniti, il leader del Partito Democratico di Corea dovrebbe fare l’esatto opposto. Certo, per non spaventare gli elettori moderati, o peggio far preoccupare la Casa Bianca, Lee ha pesato ogni singola parola – e non a caso ha parlato di pragmatismo – ma la sensazione è che il cordone ombelicale che lega Seoul e Washington subirà un allentamento. Molto dipenderà dal nodo dei dazi: Donald Trump li ha imposti su automobili, acciaio e alluminio made in Korea, e cioè su prodotti cruciali per la tenuta economica coreana trainata dall’export. E a questi potrebbero aggiungersi anche le tariffe reciproche congelate fino a luglio. Anzi: Lee non ha avuto neanche il tempo di prestare il giuramento che Trump ha raddoppiato i dazi su tutte le importazioni di alluminio e acciaio portandoli dal 25% al 50%.
Gli altri due dossier scottanti per Lee si chiamano Cina ma soprattutto Corea del Nord. Per quanto riguarda il Dragone, Seoul, considerando la guerra commerciale scatenata dagli Usa, deve ricucire i rapporti diplomatici con Pechino, il suo principale partner commerciale, per stimolare le esportazioni e la crescita interna. C’è solo un piccolo, grande, problema: gli Stati Uniti chiedono con insistenza alla Sud Corea di unirsi agli sforzi militari per contenere la stessa Cina. Sul fronte nordcoreano, Lee ha chiarito di voler rendere “la penisola pacifica” e spiegato che “avvierà un dialogo con la Corea del Nord per costruire la pace senza combattere”. Resta da capire come reagirà Kim Jong-un, ancora scottato dal nulla di fatto conclusosi qualche anno fa con l’ex presidente progressista sudcoreano, Moon Jae-in, e lo stesso Trump. Nel frattempo la Corea del Nord ha rafforzato il proprio arsenale militare e cementato un’alleanza considerevole con la Russia di Vladimir Putin.
Federico Giuliani