Il percorso europeo di Kiev continua a essere bloccato dall’Ungheria

Il percorso europeo di Kiev continua a essere bloccato dall’Ungheria

HUNGARY FLAG

Sabato scorso i leader della «coalizione dei volenterosi» sono atterrati a Kiev per tracciare un percorso comune con l’alleato ucraino. Al termine dell’incontro Macron, Starmer, Merz e Tusk insieme al padrone di casa Zelensky hanno avuto un colloquio telefonico con Donald Trump dal quale è uscito una sorta di ultimatum alla Russia. Tregua di 30 giorni subito o «sanzioni enormi». Il Cremlino è stato costretto alla contromossa, proponendo un incontro con Zelensky a Istanbul per il 15 maggio. Sarà il primo summit tra i due presidenti dall’inizio della guerra in Ucraina, ma le posizioni di partenza dei due belligeranti restano lontanissime. Sul tavolo, tra le altre questioni, lo status post-bellico del Paese invaso e il suo potenziale ingresso in alleanze difensive e nell’Unione Europea. Quest’ultimo punto sembra essere uno dei meno spinosi al momento, in quanto sia Trump sia Putin hanno dichiarato di «non avere nulla in contrario». Ma se dall’esterno sembra quasi scontato che Kiev potrà sedere a Bruxelles, all’interno dell’Unione persistono i malumori di alcuni dei membri, in primis dell’Ungheria che ha più volte ribadito un secco diniego all’ingresso di Kiev.

Il 15 marzo, in occasione di una delle più importanti feste nazionali ungheresi, il Primo Ministro Viktor Orbán ha tenuto il suo tradizionale discorso sulla scalinata del Museo Nazionale, luogo simbolo della Rivoluzione del 1848. Durante il comizio, dai toni decisamente nazionalisti, il capo di governo ungherese ha toccato due temi fondamentali che, molto probabilmente, saranno alla base di parte dell’azione politica di Fidesz nei prossimi mesi: il referendum sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e i 12 punti che costituiscono “Le richieste della nazione ungherese a Bruxelles”. Quest’ultimo aspetto rappresenta una interessante assonanza con i 12 punti alla base delle richieste ungheresi all’Impero austriaco, proclamati proprio il 15 marzo 1848 che diedero il via alla Rivoluzione.

Il referendum sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea era già stato approvato durante la seduta del Consiglio dei Ministri del 12 marzo, quando il governo magiaro ha deliberato l’indizione di una “nemzeti konzultáció”, ossia una consultazione nazionale dal carattere non vincolante attraverso la quale i cittadini ungheresi saranno chiamati a esprimersi sulla possibilità di ammettere l’Ucraina nell’UE. Quello delle “nemzeti konzultáció” è un meccanismo abbondantemente usato da Fidesz per legittimare l’azione del governo attraverso quella che sembrerebbe essere una istituzione democratica, ma che in realtà si basa su quesiti posti in modo da favorire le istanze governative, portando quindi a una disaffezione dei cittadini nei confronti di questa particolare forma di referendum ai quale partecipano solitamente solo gli elettori di Fidesz.

Nonostante gli interventi diretti di Orbán, secondo cui l’ingresso dell’Ucraina in Europa sarebbe un disastro economico perché comporterebbe obblighi nella ricostruzione di un Paese distrutto da anni di guerra, senza contare l’impatto sull’agricoltura europea e sul mercato del lavoro che potrebbe vedere un afflusso ingente di lavoratrici e lavoratori ucraini, i sondaggi sembrerebbero arridere al governo conservatore magiaro. Secondo uno studio di Medián, infatti, il 33% degli ungheresi sarebbe fermamente contrario all’adesione di Kiev all’UE, mentre il 23% sarebbe in qualche modo contrario. Il 56% della popolazione ungherese, quindi, non vedrebbe di buon occhio l’allargamento delle frontiere dell’Unione a Kiev, denotando uno schieramento trasversale che includerebbe tanto elettori di Fidesz quanto della “nuova” opposizione di Tisza.

La consultazione nazionale è un tema estremamente caro al Primo Ministro ungherese, tanto da includerlo nei 12 punti precedentemente menzionati sotto la forma del nuovo slogan “Unió, de Ukrajna nélkül”, ossia “Unione, ma senza Ucraina”. Le “Richieste della nazione ungherese a Bruxelles” sembrano essere una somma delle posizioni tradizionali di Fidesz, ossia rivendicazione di una “Europa delle nazioni”, sovranità nazionale e forte potere di veto dei governi nazionali, espulsione degli “agenti di Soros”, protezione delle frontiere dall’immigrazione incontrollata e divieto della “rieducazione innaturale”. In realtà, questa sorta di programma minimo nasconde una realtà più ampia e un piano di riforma dell’Unione Europea che potrebbe trovare diversi appoggi oltre Atlantico, negli Stati Uniti d’America guidati da Donald Trump.

Dopo aver paragonato l’Unione Europea all’Impero asburgico del 1848 (quello di ieri, secondo Viktor Orbán, era l’Impero dell’aquila, mentre quello di oggi è l’Impero arcobaleno), il Primo Ministro magiaro ha affermato che, contrariamente a quanto viene ritenuto da alcuni, i patrioti non sono il passato dell’Europa, ma il suo futuro. I 12 punti proclamati il 15 marzo 2025, infatti, sembrerebbero essere la versione condensata e più facilmente “propagandabile” di un piano assai più ampio, noto con il nome di “The Great Reset” elaborato dal Mathias Corvinus Collegium, importante think tank conservatore ungherese guidato da Balázs Orbán, a capo dell’ufficio politico del Primo Ministro, e dal centro studi polacco Ordo Iuris.

Il documento propone una riforma radicale dell’Unione Europea ed è stato presentato, a porte chiuse, durante un workshop tenuto negli Stati Uniti dalla “The Heritage Foundation”, principale think tank del movimento MAGA ed ente assai vicino al Presidente Trump. Il programma è stato redatto dal MCC e da Ordo Iuris in seguito a una serie di incontri con altri istituti conservatori europei e sembrerebbe quindi essere la punta dell’iceberg di un movimento assai più ampio.

Gli autori, dopo una lunga critica allo stato attuale dell’Unione Europea e al Manifesto di Ventotene redatto, secondo i due istituti conservatori, sotto l’influenza del marxismo, propongono due possibili alternative: il ritorno alle origini o un nuovo inizio. La soluzione ai problemi di questa Unione corrotta e burocratica non può essere, secondo MCC e Ordo Iuris, “più Europa” o un progetto federale che si basi su una inesistente “sovranità europea”, ma lo scioglimento dell’Unione e la sua riforma in una nuova istituzione che tragga ispirazione dai principi fondativi e dalla sovranità nazionale, dando così vita a una nuova forma di cooperazione.

In base a quanto affermato dai due think tanks conservatori, l’Europa di oggi soffrirebbe di un deficit democratico: la base della democrazia sarebbe infatti la rappresentanza nazionale, ossia l’elezione di pubblici ufficiali da parte dei cittadini riuniti in nazione. L’idea dell’esistenza di una presunta “nazione europea” sarebbe falsa e si renderebbe quindi necessario giungere a una unione di popoli che governino insieme: non come un popolo solo, ma come cooperazione e deliberazione transnazionale di Stati sovrani riuniti intorno a una nuova istituzione più flessibile. La cooperazione tra Stati dovrebbe di conseguenza essere volontaria e limitarsi ad aree comuni minime e non sindacabili (come, per esempio, il mercato unico e l’unione doganale) e altre opzionali, ai quali gli Stati membri possono decidere se partecipare o meno in base ai propri interessi nazionali (come la politica energetica).

Entrambi gli scenari elaborati dai due istituti prevedono alcune decisioni che andrebbero quindi a stravolgere completamente, se non a distruggere, l’Unione Europea per come la conosciamo oggi. Anzitutto, gli autori propongono di cambiare il nome dell’Unione Europea in Comunità delle Nazioni Europee (CNE), a rimarcare la nuova natura di questa istituzione, il ritorno ai principi fondativi e la nuova centralità assunta dalle sovranità nazionali. La flessibilità di questa nuova Comunità si sostanzierebbe nell’aumento delle possibilità di opt-out, ossia nel maggior diritto dei governi nazionali di sospendere legislazioni europee ritenute contrarie ai propri interessi nazionali, dalla nascita di uno “scudo delle competenze nazionali”, ossia una lista di argomenti di stretta competenza degli Stati membri quali, per esempio, famiglia, ordine pubblico, ordine morale e istruzione e da un totale stravolgimento delle attuali istituzioni europee.

Garantendo la primazia del diritto e delle costituzioni nazionali, questo “Great Reset” dovrebbe stabilire il ruolo marginale della Corte di Giustizia europea, mentre la Commissione verrebbe trasformata in un Segretariato Generale sotto stretto controllo dei governi nazionali, la cui Presidenza verrebbe nominata dal Consiglio Europeo, nuova istituzione suprema della CNE. Anche il Parlamento europeo non verrebbe risparmiato, trasformandosi in una Assemblea Consultiva composta da membri eletti e da delegati nazionali nominati dagli Stati membri, chiamata a esprimersi in maniera appunto consultiva solo su tematiche che coinvolgono i diversi interessi nazionali.

Una nuova forma di cooperazione, quella della CNE, che vedrebbe quindi ridotto a un ruolo estremamente marginale il Parlamento europeo, favorendo invece il Consiglio Europeo e il Consiglio dei Ministri, portando quindi a una Unione ridotta al minimo e, di fatto, alla fine del progetto di integrazione europeo per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Un progetto che, lungi dall’essere sola elaborazione di due think tanks conservatori, potrebbe nascondere un disegno assai più ampio e che potrebbe ottenere l’appoggio di Donald Trump nella sua crociata antieuropea.

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