Il teatro come kairos della cura: Basaglia e la sua eredità
Il teatro come kairos della cura: Basaglia e la sua eredità
Il confine tra normalità e follia da sempre costituisce una delle frontiere ideali che ogni società si assegna per identificarsi e difendersi. Nel passaggio tra concetto e pratica, ogni società ha imposto leggi diverse per isolare il “diverso” e impedirgli di turbare l’ordine costituito. La repressione è stata la risposta dominante in tutte le epoche tranne in alcune auree eccezioni. In apertura della nostra sezione di psicologia, Valeria Condino ed Emma De Luca hanno delineato un approfondimento sull’azione di uno dei più grandi innovatori nel trattamento della follia, Franco Basaglia, e sul suo lascito a quarant’anni di distanza.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che una persona su quattro nel corso della vita si trova a dover fare i conti col disagio mentale. Nel 2019, anno a cui si riferisce l’ultimo Rapporto sulla Salute Mentale in Italia, divulgato, promosso e realizzato dal Ministero della Salute, sono state assistite per problemi psichiatrici più di 800 mila persone. I pazienti che nel 2019 sono entrati in contatto con i Dipartimenti di Salute Mentale ammontano a 314.120 unità, di cui il 93% ha avuto un contatto con i servizi per la prima volta nella vita, ma le risorse in campo non bastano per fornire loro una adeguata assistenza e da ciò si deduce quanto poco spazio sia dedicato alla salute mentale. In altri termini, oggi il settore è di nuovo sotto attacco, probabilmente a causa di una specifica volontà politica di modificare l’assetto organizzativo di tutto ciò che attiene la salute mentale. Ma per valutare ciò che sta accadendo, è necessario interrogarsi sugli sviluppi degli ultimi anni e su come le riforme in ambito psichiatrico abbiano permesso di sviluppare servizi di salute mentale e di medicina di comunità finora all’avanguardia Ma procediamo per gradi.
Basaglia e altri svuotano l’ospedale psichiatrico di Trieste in occasione della sua chiusura (foto Luciano d’Alessandro)
Nel 1964, al I Congresso internazionale di Psichiatria Sociale, Franco Basaglia pone per la prima volta alle società democratiche una questione cruciale: “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”. Citando Antonin Artaud, che in manicomio affermava: «Possiate ricordarvene domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi uomini, nei confronti dei quali, riconoscetelo, non avete altra superiorità che la forza», Franco Basaglia riconosce che la distruzione del manicomio è un fatto necessario e urgente, se non semplicemente ovvio. Le teorie psichiatriche tradizionali, affermatesi dietro l’ombra dei principi sanciti da Cesare Lombroso, non si occupavano della cura dei pazienti, ma della gestione del malato di cui si era decretata la pericolosità. Lo sguardo di alcuni artisti dell’epoca segnalano che a riempire i manicomi erano soprattutto i poveri che toccavano il fondo, perché venivano iscritti al casello giudiziario e non potevano essere reinseriti lavorativamente, né curati. Essere malato corrispondeva ad essere ghettizzato. I manicomi nel Novecento erano regolati dalle norme sancite dalla sanità provinciale e gestiti dalla psichiatria. Essi si ergevano in periferia, rispettando un’antica tradizione, secondo cui il mostruoso, ovvero il malato di mente, doveva essere nascosto. Tra gli anni ‘50 e ‘60 sono circa 100 mila le persone internate; nel passaggio tra l’Italia agricola e quella metropolitana molte persone rimangono senza uno specifico posto, relegati a reietti della società, grazie anche alla legge 36 del 1904.
Foto Luciano d’Alessandro
Negli anni che seguono il ’68 arriva l’antipsichiatria, un movimento di contestazione sorto all’interno della psichiatria e della psicoanalisi anglosassoni, ma le cui origini possono essere individuate nelle suggestioni provenienti dagli studi di Foucault, in particolare dall’Histoire de la folie à l’age classique (1961) che ricostruiva le forme della repressione psichiatrica messe in atto a partire dal sec. 17° secolo. Da quel momento il pensiero di Focault comincia a diffondersi, ad essere apprezzato e “usato” all’interno della comunità di psichiatri e psicanalisti. Tra questi Ronald Laing e David Cooper sviluppano un pensiero di forte opposizione alla psichiatria classica, che dà luogo a esperienze alternative come quella della gestione del “padiglione 21”, iniziata nel 1962 in un ospedale psichiatrico londinese, o la creazione delle households, centri di accoglienza esterni al manicomio. L’antipsichiatria inglese rifiuta la scienza tradizionale, attribuendole una pratica violenta sulla follia – in una più estesa ideologia repressiva esercitata dalla società, dalla famiglia, da altre istituzioni – contro cui bisogna opporre una dialettica di liberazione, in difesa di un’idea di schizofrenia come viaggio creativo e purificatore, forma di ribellione da adottare per sopportare una situazione insopportabile. Foucault svolge per Laing, per Cooper e per altri psichiatri che si riconoscono in questo movimento una funzione di ancoraggio e di rafforzamento di idee ancora in fase di sviluppo. A differenza dell’antipsichiatria britannica, l’antipsichiatria italiana comprende che esiste una contraddizione aperta tra la negazione di un potere istituzionale e la sua gestione. Secondo Basaglia è necessario mettere “tra parentesi” la malattia mentale, perché la definizione della sindrome aveva assunto il peso di un etichettamento che andava oltre il significato reale della malattia stessa. Questa messa tra parentesi, differentemente dalla negazione della malattia mentale stessa, permette di avvicinarsi al paziente, di entrare in relazione con lui sulla base della comprensione del suo attuale essere nel mondo, parte di una strategia interpretativa il cui obiettivo era una forma di trattamento. I nuovi operatori, per lo più provenienti dalle rivolte studentesche, tendevano spesso a privilegiare un solo polo di tale contraddizione, la negazione, senza considerare che questa era già presa all’interno di un’organizzazione di potere e di un’ideologia di sapere di cui bisognava tenere conto. Secondo Basaglia, non basta promuovere una generica liberazione della follia senza interrogarsi sulle regole quotidiane di funzionamento dell’istituzione. Anche per lo psichiatra italiano, come per Foucault, questo è uno dei motivi di dissenso rispetto all’antipsichiatria inglese, attestata su posizioni libertarie, talora velleitarie e antiscientifiche, posizioni che spesso non arrivano a incidere concretamente sulle pratiche particolari e sulle politiche generali della psichiatria. Le idee alla base della rivoluzione basagliana partono dal presupposto che per affrontare la “follia” sia necessaria l’intera società e che, quindi, psichiatria e medicina da sole non sono sufficienti. L’emarginazione coatta non è più considerata uno strumento terapeutico ma si introduce la possibilità di istituire con i “matti” un rapporto umano. Sostituire il principio di libertà a quello di autorità attraverso le comunità terapeutiche, ovvero le grandi assemblee all’interno del manicomio che, da luogo di segregazione e oggettivazione, diventa luogo di partecipazione, di recupero della propria soggettività e, con essa, dei propri diritti e dei propri doveri, perché Basaglia non è interessato a santificare il folle, quanto a farlo uscire dallo statuto di matto per farlo entrare a pieno titolo nella società.
Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste dove, a differenza di Gorizia, gli viene lasciata carta bianca per attuare dei cambiamenti. Lo psichiatra invita a trasformare lo spazio, a smontare il manicomio e a sostenere le persone che vi abitavano nel processo di costruzione e di difesa di spazi di vita sociale. Attraverso questo nuovo modo di intendere la cura, rompe diverse ideologie diffuse nel contesto della salute mentale, in particolare ribalta il concetto di “intrattenimento”, dove spesso gli utenti venivano impegnati in attività ludiche frustranti, con operatori che non ritenevano gli stessi utenti bisognosi di dare senso al proprio tempo. Basaglia, vivendo con grande coinvolgimento queste prime fasi di costruzione dell’istituzione, lavora perché anche questo spazio venga trasformato in un movimento utile per favorire la libera espressione delle persone coinvolte e non di laboratori fintamente ortopedici utili per riempire lo spazio. L’ospedale psichiatrico di Trieste aveva un teatro bellissimo, immacolato, usato di rado per qualche rappresentazione che vedeva coinvolti gli internati più bravi, quelli più diligenti, quelli da mostrare. Quel teatro fisico era inserito in un teatro più grande, simbolico, che Basaglia, in un’introduzione a un libro di Peppe dell’Acqua aveva definito il “teatro della follia”. “Il manicomio è il teatro della follia dove ognuno è costretto a giocare una parte che è la sua parte. In manicomio non c’è mai una sera in cui si recita a soggetto. Tutti gli attori di questo strano teatro hanno un canovaccio fisso, “i quadri viventi” della follia, dove le parti e il copione sono sempre gli stessi. Le battute non mutano mai. I quadri viventi sono paradossalmente connotati da un’immobilità mortale”. E così il teatro vero e proprio, quello fisico, insieme al corso di pittura, o a quello di ceramica, non facevano altro che riprodurre la stessa immobilità, la stessa chiusura. Perché i “matti” tutt’al più andavano educati, bisognava dargli qualcosa da fare, purché rimanessero infantili, innocui, ma soprattutto nascosti alla comunità. Nel 1972 Basaglia decide di invitare nell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste il regista teatrale Giuliano Scabia, assieme al pittore e scultore Vittorio Basaglia, cugino dello psichiatra. Ai due si aggiungono ben presto altri artisti, ma anche studenti e volontari che, nel padiglione P, il primo padiglione svuotato del San Giovanni, cominciano a fare qualcosa con i matti. Basaglia gli aveva detto “venite e fate quello che volete”. All’inizio non è chiaro cosa andranno a fare, nessuno di loro vuole proporre uno spettacolo o fare dell’arte terapia, l’idea è quella di costruire qualcosa di molto grande, che renda evidenti e visibili i bisogni e le voci delle persone internate, per opporsi al tentativo del manicomio e delle istituzioni che li vogliono piccoli, innocui e invisibili. Tra gli ospiti che piano piano si affacciano al padiglione P, qualcuno racconta la storia di Marco, il cavallo anziano che si occupa di trasportare la biancheria sporca all’interno del manicomio e che, ormai privo di forze, è destinato al macello. Ancora una volta la fragilità deve essere espulsa, nascosta. Ma succede che gli internati, gli infermieri e gli psichiatri si ribellano e mettono su un comitato per chiedere che Marco il cavallo venga risparmiato e passi la sua pensione in una fattoria del Friuli. Nasce così l’idea di costruire un grande cavallo blu di cartapesta con una pancia che contenga delle cose, delle richieste, dei bisogni. Ma il laboratorio del padiglione P non si limita a costruire il cavallo, le persone cominciano a raccontare delle storie, spesso le loro storie, a disegnarle, a interpretarle. Si scrivono canzoni e operette che riguardano un po’ Marco cavallo e un po’ ognuno di loro, e ogni sera, per due mesi, si fa il giro dei reparti appendendo grandi manifesti murali ed esibendosi con un teatro itinerante: si inventa e si va in giro a raccontare quello che si è inventato. Questa è la prima vera azione teatrale del manicomio di Trieste. Non quella recitata a teatro, ma questa, creata e vissuta da tutti, che riguarda la realtà dei pazienti, le loro storie e il loro presente. “Dipingere, giocare a pallone, fare teatro, scrivere, raccontare storie, curare i giardini, pulire verdura e pavimenti sono azioni che nella loro concretezza non possono che avere a che fare con la vita reale delle persone. O non sono altro che intrattenimento, riproduzione ossessiva del teatro della follia” . Quello che avviene dentro il reparto P non ha però alcun senso se resta anch’esso internato dentro al manicomio, se diventa un’altra modalità con cui l’istituzione segna il quotidiano. E così il grande cavallo blu di cartapesta, con la pancia piena di lettere e desideri degli internati, varca i cancelli del manicomio. Li varca passando di sbieco, non riesce a sfondarli ma li varca.
Pazienti, medici, infermieri, artisti e volontari si esibiscono per Trieste, coinvolgendo cittadini e autorità. Ballano, cantano, recitano la storia di Marco cavallo e le loro. Quello che avviene nel reparto P è teatro come affermazione della propria esistenza di fronte all’altro, un’esistenza fino a quel momento negata e ridotta ai margini. Il teatro diventa quindi una rivoluzione, un atto politico. Mentre sfila per le strade di Trieste, Marco Cavallo è accompagnato dallo striscione “MARCO CAVALLO LOTTA PER TUTTI GLI ESCLUSI”. Il cavallo blu di Scabia diventa un simbolo per tutti gli oppressi. Viene invitato in giro per il mondo – non solo in Italia ma anche in Francia, in Germania, in Spagna – a parlare per e insieme ai reclusi: nelle carceri e negli ospedali psichiatrici Marco Cavallo parla di liberazione e di un’altra realtà possibile. Nel maggio del 1978 il Parlamento approva la legge 180 che sancisce la chiusura dei manicomi. La legge, inoltre, garantisce, almeno nella forma, diritti e dignità per coloro che soffrono di disturbi mentali: il diritto alla cura e alla salute nel rispetto della dignità della persona. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro. Così scriveva lo psichiatra nel 1979, l’anno successivo all’approvazione della legge 180, la prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici e a stabilire un principio fondamentale: tutte le persone con disturbi mentali hanno uguale diritto di cittadinanza, un diritto che per secoli la psichiatria aveva negato. Quello di Basaglia non è semplicemente un cambio di rotta, ma una rivoluzione culturale e intellettuale che, oltre a proporre un nuovo modo di concepire il rapporto con la follia, sancendo per prima cosa i diritti delle persone ricoverate, si occupa di organizzare i servizi di salute mentale, istituendo centri territoriali di salute mentale, strutture residenziali e semiresidenziali, reparti psichiatrici negli ospedali generali, équipes multiprofessionali, abbattendo l’istituzione manicomiale. Nelle comunità terapeutiche, medici, operatori e pazienti possiedono pari dignità e pari diritti; i rapporti non sono più verticali, bensì orizzontali, ovvero, è privilegiata la collaborazione tra pari. Il malato, inoltre, non è considerato come un reietto, bensì come una persona da aiutare, recuperare e riabilitare. Le terapie elettroconvulsivanti, i letti di contenzione, le camicie di forza sono definitivamente bandite e la terapia farmacologica viene considerata solo uno dei metodi utili per concedere la possibilità di riabilitarsi. Due anni più tardi l’approvazione della legge, l’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste chiude definitivamente e ad assumerne le funzioni sarà una rete di servizi e Centri di Salute Mentale (CSM) aperti 24 ore su 24. Quella di Trieste è però un’esperienza modello, la realtà è ben diversa: l’applicazione della legge viene infatti demandata agli enti locali, che ne danno attuazione con tempi e modi diversi. Alla chiusura dei manicomi poche province erano pronte con strutture di accoglienza adeguate, molti pazienti si trovarono a vivere con famiglie che magari non avevano visto per più di vent’anni o più spesso si ritrovano a vivere per strada in mezzo alla strada.
Solo 20 anni più tardi, tra il 1994 e il 1999, con il “Progetto obiettivo”, avviene l’effettiva abolizione degli ospedali psichiatrici. Nel 2010, una commissione parlamentare di inchiesta accerta le condizioni di estremo degrado degli ospedali psichiatrici giudiziari OPG (istituiti nel 1975 a sostituzione dei manicomi criminali). Dopo vari rinvii, solo nel marzo 2015 gli OPG vengono chiusi definitivamente. Al loro posto vengono aperte le Rems, Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Anche le strutture attuali sono molto lontane dall’esperienza basagliana e le attività dei centri diurni assomigliano più al vecchio teatro dell’ospedale psichiatrico di Trieste che alla rivoluzione del teatro di Scabia. Gli utenti possono sì uscire ed entrare liberamente dai centri diurni, ma spesso sono coinvolti in “laboratori terapeutici” monotoni e infantilizzanti. Gli operatori sociosanitari (infermieri, psicologi, psichiatri, assistenti sociali), per la maggior parte mal pagati e precari, per lo più ignorano il vero significato dell’esperienza di Trieste. Basaglia vedeva le persone con disturbi mentali come cittadini con bisogni ed esigenze radicati nella collettività e, per questo, immaginava servizi territoriali in grado di accogliere tali bisogni. Non immaginava certo ambulatori paralizzati dalle liste d’attesa, un proliferare di strutture private, e un’attenzione alla diagnosi più che alla persona. Nel 2011 Peppe dell’Acqua scriveva: “credo che Marco Cavallo dovrebbe girare tutta la penisola facendo sosta davanti ai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura chiusi, davanti ai luoghi in cui le persone muoiono di psichiatria, davanti ai Centri di Salute Mentale vuoti, sporchi e privi di significato, davanti alle cliniche private, private di senso, che privano le persone di futuro”. A giugno 2021 l’esperienza basagliana ha subìto un altro duro colpo a seguito dell’esito del concorso per la direzione del CSM di Barcola, a Trieste, aperto da Basaglia e ancora oggi, dopo più di quarant’anni, fiore all’occhiello della sanità pubblica per quanto riguarda la salute mentale. La prova orale del concorso ha ribaltato una graduatoria che vedeva vincitore Mario Colucci, psichiatra di formazione basagliana, a favore di Pierfranco Trincas, anziano psichiatra direttore dell’ospedale psichiatrico di Cagliari, struttura nota per i metodi contenitivi, le denunce di maltrattamento e, non ultimo, un paziente deceduto dopo sette giorni di contenzione. A presiedere la commissione del concorso Emi Bondi, psichiatra ben lontana dalle idee basagliane e direttrice dell’SPDC di Bergamo, dove nel 2019 morì una giovane ragazza, bruciata viva durante un incendio mentre era legata al letto in una stanza chiusa a chiave. La disputa attorno a questo concorso riflette il conflitto tra l’idea di salute mentale come cura del bisogno e della fragilità di cittadini liberi in pieno possesso dei propri diritti e ai quali è riconosciuta una dignità e l’idea di una psichiatria che tenta ancora di nascondere, celare, sedare. Ma forse riflette una contrapposizione ancora più ampia tra un’idea di sanità pubblica, territoriale, volta alla promozione del benessere delle persone e non solo al contenimento dell’emergenza e un’idea di sanità pubblica sempre più precaria, sempre meno finanziata, che appalta e si allontana dalle persone. Se è vero, quindi, che i confini tra sano e malato, tra esterno e interno sono diventati sicuramente meno rigidi in seguito all’approvazione della legge 180, l’esperienza basagliana è sotto attacco ora più che mai e, probabilmente, a parte in poche realtà, non è mai stata realmente attuata. Il teatro, dentro ai CSM italiani, è tornato ad essere teatro della follia, dove le persone sono esclusivamente pazienti psichiatrici con un rigido copione da rispettare. Tuttavia, in contrapposizione a un modello che va regredendo esistono esperienze virtuose, in Italia e all’estero, che non solo sembrano più in linea con l’esperienza basagliana ma sono a loro volta laboratorio di ricerca e sperimentazione. Tra queste c’è l’esperienza di Passpepartout, cooperativa sociale che nasce all’interno dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma e che, per prima, si occupa di costruire progetti lavorativi per i pazienti dimessi in seguito alla legge 180. La cooperativa gestisce, ancora oggi, alcune laboratori dei centri diurni dell Asl Roma1. Da questo progetto intraistituzionale sono nate però diverse realtà extraistituzionali che con l’istituzione, in questo caso la Asl, continuano a collaborare. La Boudu-Passepartout che si occupa di produrre e distribuire film e i NonTantoPrecisi, compagnia teatrale formata da diverse persone che vengono da percorsi differenti e secondo cui, come loro stessi descrivono, “fare teatro vuol dire costruire ogni giorno, col lavoro espressivo e creativo di ciascuno, il teatro comune, inteso anche come costruzione di collettività, come possibilità di condivisione”. di Valeria Condino, Emma de Luca (Valeria Condino ed Emma de Luca torneranno ad occuparsi di questi temi nel prossimo numero con uno speciale sulla compagnia “Nontantoprecisi”. Seguiteci sui nostri canali social e sul sito per i prossimi aggiornamenti)

 

 

 


1 Psichiatra, neurologo e docente italiano, innovatore nel campo della salute mentale, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia, fondatore di Psichiatria Democratica e ispiratore della Legge 180/1978 (che ne prende il nome), che introdusse la revisione ordinamentale degli ospedali psichiatrici in Italia promuovendo trasformazioni nel trattamento sul territorio dei pazienti con problemi psichiatrici 2 Non ho l’arma che uccide il leone – AlphaeBeta edizioni 3 Psichiatra, nel 1971 comincia a lavorare con Basaglia nell’ospedale psichiatrico di Trieste partecipando alla sua chiusura. Contribuirà alla progettazione e sperimentazione dei primi Centri di Salute Mentale, e dirigerà il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di Trieste. 4“Quando la follia e il teatro divennero una cosa seria”, Peppe dell’Acqua, articolo doppiozero 5 Marco Cavallo – AlphaeBeta edizioni

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