Soffro dunque siamo. La cura è nella relazione

Soffro dunque siamo. La cura è nella relazione

Da alcuni anni a questa parte, complice la pandemia, parlare e prendersi cura della propria psiche non costituisce (quasi) più un tabù. La cronaca ci restituisce quotidianamente le storie di studenti e lavoratori che non riescono a reggere le alte richieste di una società che riversa sulle persone aspettative altissime. Inoltre, il tema della cosiddetta «salute mentale» è tornato a essere oggetto di discussione e anche di interesse attivo – seppur insufficiente – da parte dei governi, come dimostra ad esempio l’approvazione del bonus psicologo. Ma alla progressiva caduta dello stigma del disagio psichico non ha fatto seguito un accesso più facile alle cure o maggiori finanziamenti delle strutture territoriali, come racconta Marco Rovelli nel suo Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui (minimum fax, 2023).

L’autore (cantautore, narratore, saggista) non si limita a sviluppare un’ampia riflessione-inchiesta sul disagio psichico. In dialogo con psicoterapeuti e addetti ai lavori, Rovelli si interroga sul modo in cui la nostra società vive la sofferenza della psiche, quali sono i sintomi più diffusi, quali le cure che offre, e cosa questo dolore dice di tutti noi.

Rovelli si chiede, innanzi tutto, in che modo una società che si pensa, secondo l’adagio thatcheriano, formata da «individui e famiglie» influenzi il dilagare dei sintomi, quindi esamina il disagio psichico attraverso le storie soggettive e dialoga con gli “addetti ai lavori” per capire di cosa parliamo quando parliamo di salute mentale, oggi.

Secondo un’indagine condotta da Ipsos, infatti, l’Italia è l’ultimo Paese in Europa per quanto riguarda il benessere mentale. Ansia, depressione, attacchi di panico, disturbo borderline della personalità ci raccontano di una società in cui è vietato fermarsi e dove fallire è impensabile. Ma è la sofferenza psichica a dimostrare, come insegna Mark Fisher in Realismo capitalista, che la privatizzazione del dolore psichico operata dal capitalismo è una mistificazione. Siamo in realtà parte di un tutto interconnesso: non siamo quindi individui, sostiene Rovelli riprendendo la definizione e le teorie dell’antropologo Francesco Remotti e del biologo Carlo Alberto Redi, siamo condividui, ovvero un tutto inestricabile, realtà di cui abbiamo preso coscienza proprio durante la pandemia, quando i comportamenti soggettivi si sono rivelati fondamentali per la società intera.

Nella seconda parte del libro, Rovelli mette in evidenza che l’unica risposta della psichiatria odierna (prona alle categorizzazioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association) ai disagi psichici è quella dello psicofarmaco, cui fa spesso seguito la cronicizzazione del sintomo, nel quale il soggetto resta bloccato. Questa visione organicista, intorno alla quale anche i servizi territoriali sono stati ristrutturati, non solo cancella la natura relazionale del disagio psichico e riduce la mente a un organo qualunque che non funziona come dovrebbe, ma nega alla radice il postulato della riforma basagliana secondo cui solo attraverso la relazione è possibile la cura.

L’isolamento dato dallo psicofarmaco, quel «manicomio diffuso» di cui parla anche lo psichiatra Piero Cipriano, non solo non cura, ma peggiora le cose. La sofferenza psichica non è quindi un dato individuale e inscritto nella mente che smetterebbe di funzionare al pari di un organo qualsiasi, ma è la spia che c’è qualcosa che non funziona nella rete sociale del soggetto, e, più in grande, nel sistema stesso in cui il sintomo esplode.

Rovelli e gli psicoterapeuti da lui intervistati non negano tuttavia l’importanza della storia soggettiva in cui ansia, ritiro sociale, depressione, eccetera, vengono maturati. Mettono però in crisi l’idea di malattia e guarigione della psichiatria odierna, la divisione netta che opera tra sani e malati e lo strumento centrale di intervento, lo psicofarmaco. Strumenti e misure, questi, in piena sintonia con la società della prestazione che, con la pandemia, ha visto la crescita esponenziale del mercato del wellness. Secondo un report del 2020 del Global Wellness Institute, Defining the Mental Wellness Economy il business del cosiddetto «benessere mentale» si aggira globalmente sui 120,8 miliardi di dollari spesi tra prodotti per il sonno, nutriceutica, stimolanti del cervello, crescita personale e meditazione. La domanda di benessere è in fondo un sintomo della paura del fallimento, terrore che il corpo e la mente-macchina non reggano in una società che seppellisce i soggetti con richieste impossibili e in cui ognuno deve esistere solo in quanto imprenditore di sé stesso, soprattutto della propria interiorità, obbligato com’è a diventare la versione migliore di sé. Ed è d’altronde un bisogno perfettamente compatibile con la società degli isolati che si illudono di potercela fare da soli.

In questo senso allora, neanche le stanze degli psicoterapeuti dove, in solitaria, i soggetti fanno fronte ai propri problemi in quanto individui isolati, si salvano dall’illusione individualistica, mentre i social media come Instagram e Tiktok sono invasi di psicologi e psicoterapeuti influencer con migliaia di follower che propongono infografiche di autodiagnosi, e dove il discorso è ossessivamente incentrato sui sintomi senza storia né contesto.
Storia del soggetto, contesto sociale e relazioni sono invece centrali per il superamento del sintomo, ovvero per la guarigione.

Ma allora di cosa parliamo, quando parliamo di guarigione? Come fare a uscire dai sintomi che bloccano i soggetti? Tra le tante storie e testimonianze riportate da Rovelli, colpiscono le parole di Raffaele Barone, direttore del Dipartimento di salute mentale di Caltagirone. Barone racconta a Rovelli che “il paziente […] è l’anello di una lunga catena, un punto nodale di una rete di interazioni, la quale è la vera sede dei processi che portano tanto alla malattia che alla guarigione“. A Caltagirone viene curata l’intera rete di relazioni del paziente attraverso la tecnica del Dialogo aperto e i Gruppi multifamiliari. Il soggetto vive nella Comunità terapeutica democratica (la prima fu aperta a Gorizia nel 1962 con Basaglia) con psicologi e pazienti e la guarigione passa attraverso l’Inclusione sociale e lavorativa del paziente, cioè attraverso casa e lavoro. E il disagio psichico si risolve, racconta Barone a Rovelli, anche nelle sue forme più complesse. Senza psicofarmaci né TSO.

È la lezione di Franco Basaglia, quella che Rovelli approfondisce e riattualizza: l’unica cura efficace è nella relazione (autentica), perché è la psiche a essere relazionale, politica. E se le relazioni sono malate, la psiche si ammala. Guarire significa allora stare in relazione, permettere il “pieno recupero della soggettività della persona, della sua possibilità di progettare una vita” (p. 200). Diventare liberi, quindi.

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