Serena Ganzarolli

Il suicidio di Ousmane Sylla è il fallimento del sistema di accoglienza italiano

Il suicidio di Ousmane Sylla è il fallimento del sistema di accoglienza italiano

«Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro». Questo è un frammento del testamento scritto sul muro della sua cella da Ousmane Sylla, il ragazzo guineano di 22 anni che all’alba di domenica 4 febbraio si è suicidato nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria a Roma dove era recluso. In seguito al ritrovamento del corpo del ragazzo, nel centro si è verificata una rivolta. Secondo Mai più lager – No ai Cpr, Sylla sarebbe la quarantesima persona a morire in un centro per il rimpatrio. Il 7 febbraio 2024, per la prima volta, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata in merito, ordinando il trasferimento di un cittadino tunisino dal Cpr di Trapani (lo stesso dove fino a pochi giorni fa era recluso Sylla) presso un’altra «struttura di accoglienza adeguata ai suoi bisogni» nonché «l’adozione di ogni altra misura finalizzata a garantire condizioni di vita e accoglienza adeguate nel Cpr, secondo gli obblighi stabiliti dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo», ovvero quello che vieta i trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Nei centri di permanenza per i rimpatri vengono detenute persone non comunitarie, che non hanno commesso un reato specifico. Secondo la legislazione, una persona può essere reclusa in un Cpr perché senza documenti, per il permesso di soggiorno scaduto, o se dichiara di venire da un paese considero “sicuro”, i cui criteri di definizione tuttavia, come dimostrano i casi della Costa d’Avorio e della Tunisia, non sono facili da determinare.
Istituiti nel 1998 dal governo di centrosinistra capeggiato da Prodi con la legge Turco-Napolitano sotto il nome di Centri di permanenza temporanea (Cpt), vengono rinominati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) con la legge Bossi-Fini del 2002, per poi assumere quella attuale nel 2017 con il decreto Minniti. Secondo il Ministero dell’Interno esistono nove centri attualmente dislocati in tutta la penisola e nelle isole. Con il decreto Cutro del 2023, la presidente Giorgia Meloni ha dichiarato l’intenzione di aprire un centro in ogni regione – a tale scopo sono stati stanziati 19 milioni di euro – e la durata della detenzione amministrativa nei Cpr è stata allungata a 18 mesi.


Sono numerose le inchieste che hanno messo in evidenza come nei Cpt, poi Cie, ora Cpr, si verifichino continue violazioni dei diritti umani, a partire dal problema del sovraffollamento. Sul centro di Roma già nel 2005 l’associazione Medici per i diritti umani stilava un rapporto dove denunciava che le patologie più diffuse fossero «le malattie psico-somatiche, gli stati reattivi di depressione ed ansia». Un’inchiesta del 2023 di Altreconomia evidenziava come la spesa degli psicofarmarci nel Cpr romano fosse pari al 51% del totale della spesa dei farmaci. Dal canto suo, il ministro dell’Interno Piantedosi aveva replicato che non era in atto alcuna «sedazione di massa».
«Questa è la medicina che mi danno ogni giorno: mattina, pranzo, cena» raccontava un migrante lo scorso maggio nel Cpr friulano di Gradisca d’Isonzo mostrando in videochiamata a una giornalista di Piazza Pulita tre bicchierini contenenti delle pasticche per “rilassarsi”. Un altro del Cpr di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza denunciava: «Qui non funziona un cazzo. Ti riempiono solo di terapia (farmaci, ndr), per farti rincoglionire, mattina, pomeriggio e sera». E ancora, un altro: «Sto morendo di freddo. E io piango da solo qua, neanche ho sentito la mia mamma. Piango da solo. Ognuno qua piange da solo. Voglio vedere la mamma».
Anche Ousmane Sylla soffriva di disturbi psicologici: secondo il rapporto della psicologa del Cpr di Trapani del 14 novembre 2023, Sylla aveva bisogno di un trasferimento presso «un’altra struttura più idonea a rispondere ai suoi bisogni». Non solo le indicazioni della psicologa restano inascoltate, ma quando il 22 gennaio 2024 il Cpr di Trapani va a fuoco, i migranti vengono smistati in altri Cpr. Il giovane viene inviato nella struttura romana dove si toglierà la vita probabilmente perché, come indicato anche nella relazione della psicologa, voleva tornare dalla sua famiglia. A impedirglielo sarebbero state proprio, da una parte, le nuove regole del decreto Cutro voluto dal governo Meloni che allunga i tempi di detenzione nei Cpr da tre a diciotto mesi e, dall’altra, il rimpatrio impossibile in Guinea: l’Italia, infatti, non ha mai siglato un accordo con la Guinea in materia.


«Trascorsi i diciotto mesi, i migranti vengono semplicemente rimessi in strada»
racconta una volontaria di Baobab all’Atlante. «Alcuni devono lasciare il paese, altri no. Se li fermano per strada senza documenti, vengono reclusi di nuovo. Spesso sono scompensati dal punto di vista clinico perché interrompono bruscamente le terapie farmacologiche».
L’inefficacia del sistema dei rimpatri come strumento per affrontare il naturale fenomeno delle migrazioni è al centro di una lunga e dettagliata inchiesta di IrpiMedia che ha indagato sulle multinazionali e le cooperative che gestiscono i Cpr in Italia: il centro di Roma dove ha trovato la morte Sylla è gestito dal 2022 da Ors, una multinazionale svizzera presente in Italia dal 2018. Assorbita da Serco, colosso inglese presente nel settore dell’aviazione, della sicurezza stradale e nei contratti delle armi nucleari, è rappresentata in Parlamento da una società di lobbying, la Telos Analisi e Strategie. Dal 2020 gestisce il Cpr di Macomer, in Sardegna, e quello di Torino, chiuso dopo le proteste dei reclusi. Già presente in Germania e Austria, la Ors avrebbe raccolto diverse denunce per cattiva gestione dei suoi centri di accoglienza: già nel 2015 un rapporto di Amnesty International aveva evidenziato le condizioni inumane in cui i migranti del centro di Traiskirchen (Austria) fossero costretti a vivere.
Il suicidio di Ousmane Sylla, ragazzo che amava cantare, arrivato in Italia da minorenne, ospitato in un centro di Ventimiglia e poi a Cassino, recluso in due Cpr da dove non poteva essere rimpatriato, è l’ultimo atto di disperazione di una lunga lista di scioperi della fame e atti di autolesionismo estremo.

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