Dissuadere dalle partenze: sulla rotta turca ci pensa già da anni l’UE

Dissuadere dalle partenze: sulla rotta turca ci pensa già da anni l’UE

CANAKKALE, TURKEY - FEBRUARY 28: Irregular migrants, who want to get to Europe through Greece, arrive in coastal, border at Ayvacik district of Canakkale, Turkey on February 28, 2020. Irregular migrants, including women and children, have been heading towards border villages of the countryâs western provinces of Edirne and Canakkale to reach Greece. The movement started at night and grew by the morning. Irregular immigrants also moved to the regions with a coast on the Aegean Sea to cross the Greek islands. (Photo by Burak Akay/Anadolu Agency via Getty Images)

“È indispensabile che l’Ue assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani, impegnandosi direttamente nelle politiche migratorie”. Così ha dichiarato il presidente Mattarella all’indomani della tragedia di Cutro, un naufragio di 180 migranti (forse molti di più) sulle coste calabresi che ad oggi conta oltre 60 morti, tra cui una ventina di bambini.

Quando il Ministro dell’Interno Piantedosi insiste a dichiarare “non dovrebbero partire” non fa altro – in realtà – che riflettere la posizione che da anni ha l’Europa, e che esprime con una serie di operazioni di esternalizzazione delle frontiere anche sulla rotta turca, proprio come è accaduto in Libia.

Vale la pena ricordare qualcosa sulle politiche migratorie nel Mediterraneo e anchei termini del trattato Turchia – Grecia del 2016, rinnovato nel 2021 ma rimasto uno “statement” , senza mai raggiungere il ruolo di vincolo.

Secondo l’accordo, alla Grecia va il compito di esaminare tutte le richieste d’asilo che arrivano sulle coste e rimpatriare in Turchia i rifugiati che vedono respinta la propria richiesta. L’Unione si è fatta garante che “che i migranti tornati in Turchia verranno protetti in base agli standard internazionali” , mentre il rimpatrio sarebbe avvenuto in rapporto 1:1, per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarebbe stato reinsediato dalla Turchia all’UE tenendo conto dei criteri di vulnerabilità delle Nazioni Unite (che danno la precedenza a donne e bambini). La Turchia si sarebbe impegnata ad evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare verso l’UE con “ogni misura necessaria” e avrebbe collaborato con i paesi vicini nonché con l’Europa stessa a tale scopo. I costi delle operazioni sono interamente coperti dall’Unione Europea che ha messo a disposizione della Turchia 6 miliardi di euro.

In cambio di questo servizio di contenimento dell’immigrazione la Turchia ha richiesto la liberalizzazione dei visti in tutti i paesi membri, un rilancio del processo di adesione della Turchia all’UE e una collaborazione per rendere più sicuro il confine con la Siria. L’accordo con Erdoğan si basa sull’assunto che la Turchia sia un paese sicuro per i migranti e cioè che rispetti i diritti umani di rifugiati e richiedenti asilo in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra e al diritto comunitario.

Erdoğan

A 7 anni da quell’accordo, però, si può tracciare un bilancio non sempre felice: ha favorito, infatti, per un certo periodo di tempo, un braccio di ferro tra l’Europa e Erdoğan. Il presidente turco, infatti, ha utilizzato gli arrivi come “merce di ricatto” nei confronti dell’UE quando, a ridosso della pandemia, nel marzo 2020 ha riaperto i confini con l’Europa consentendo il passaggio di migliaia di profughi in fuga dalle aree di guerra. Più di una volta Erdoğan ha attaccato la Grecia, accusando il governo greco di respingere i migranti nel mar Egeo senza permettere loro di arrivare nel paese e fare richiesta di una qualche forma di protezione e asilo, come prevede il diritto internazionale: a settembre 2022 la accusò di “star trasformando il Mar Egeo in un cimitero con le sue politiche sull’immigrazione” . Atene, dal canto suo, ha ripetutamente attribuito alla Turchia la colpa di incoraggiare i migranti ad attraversare il confine per fare pressione sulla Grecia e sul resto dell’UE come forma di ricatto e di cooperare con i trafficanti di esseri umani.

Grecia scudo d’Europa, un esperimento militare

In effetti, il ruolo di “Grecia scudo d’Europa” affidato ad Atene da Ursula Von Der Leyen, la Grecia lo ha preso alla lettera, tanto per cominciare costruendo un muro sul fiume Evros, al confine con la Turchia, con il quale la Grecia afferma di aver impedito a circa 260.000 migranti solo lo scorso anno di raggiungere il paese. Si propone quindi di espanderlo per tutti i 192 chilometri di confine con l’invio di altre guardie dell’agenzia europea Frontex che governa tutte le operazioni in cooperazione con le autorità greche.

L’allarme di diverse ONG è scattato proprio sul quel territorio, dove 92 migranti lo scorso ottobre sono stati trovati quasi nudi e contusi dopo essere stati presumibilmente costretti ad attraversare il fiume Evros dalla Turchia alla Grecia, intrappolati al confine al freddo e in condizioni disumane.

Sebbene gli arrivi in Grecia siano diminuiti e anche se il campo profughi di Moria a Lesbo conta ad oggi poche migliaia di rifugiati, la politica degli hot spot in Grecia sta risultando insostenibile, sotto la pressione del regolamento di Dublino che obbliga il paese di arrivo a occuparsi della procedura di accoglienza di tutte le domande di asilo. Nei campi di Leros, Lesvos, Kos, Chios e Samos, finanziati dall’UE con 276 milioni di euro, le autorità greche lamentano il fatto di non essere state sufficientemente consultate dall’Europa riguardo quello che viene definito “un esperimento di controllo delle frontiere” e che spesso si traduce in pratiche di detenzione e in una militarizzazione continua del territorio di cui secondo il rapporto dell’European Anti-Fraud Office (OLAF), Frontex si fa complice. La legislazione europea confligge spesso con quella greca per quel che riguarda le domande di asilo, i periodi di detenzione e i respingimenti e le responsabilità, rimpallate tra Frontex e le forze dell’ordine locali, non sono sempre trasparenti. Inoltre, alle ONG vengono richiesti requisiti eccessivamente restrittivi per poter operare sul territorio. Proprio a Lesbo, fino all’anno scorso erano 180 le persone che si sono inflitte volontariamente ferite o che hanno tentato il suicidio e due terzi erano bambini, in quei campi che Oxfam ha definito vere e proprie prigioni. Alla fine del 2021 due sentenze dei tribunali in Germania e Paesi Bassi hanno dichiarato colpevole la Grecia per aver violato le regole in materia di integrazione e accesso ai diritti.

Il ruolo di guardia della fortezza europea, sì. Ma a che costo? Secondo l’ultimo dossier dell’Asgi, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, i respingimenti sarebbero attuati dalla Guardia Costiera greca in collaborazione con Frontex, che effettua un’intensa attività di pattugliamento in mare. Secondo i soggetti intervistati i respingimenti avvengono con minaccia armata o sabotaggio dei gommoni con lo scopo di spingerli indietro verso la Turchia. Il 23 maggio 2022 si è verificato il respingimento di circa 590 persone in mare su 9 imbarcazioni.

Vengono segnalati respingimenti anche nei confronti di persone già sbarcate e sembrerebbero essere numerosi i casi di sparizioni, ad esempio di persone che non hanno mai raggiunto il Centro di accoglienza una volta conclusa la quarantena precauzionale nel periodo della pandemia. In questo caso, i migranti venivano respinti mediante l’accompagnamento al largo in acque internazionali o turche, lasciati su piccole imbarcazioni o galleggianti di emergenza, inidonei alla navigazione, e segnalati alle autorità turche per un loro intervento.

I Closed Control Access Centre sono dei veri e propri luoghi di detenzione con sistemi di controllo quali tornelli, cancelli magnetici, raggi X, accessi a due fattori (identità e impronta digitale) e analisi delle entrate e delle uscite. Anche le procedure di richieste d’asilo sono piuttosto macchinose e soprattutto risentono di differenze amministrativo-burocratiche tra le isole e la terraferma: le persone a cui viene rilasciato il documento di ingresso da parte della polizia (kharti) sulle isole di sbarco, non vengono adeguatamente informate della possibilità di chiedere protezione internazionale e, molto spesso, la richiesta orale non viene riportata nella documentazione rilasciata, impedendo quindi la formale presentazione di un’istanza di protezione internazionale.

La mancanza di una procedura lineare e garantita di accesso alla richiesta di protezione internazionale, soprattutto per quel che riguarda la Grecia continentale, fa sì che la maggior parte delle persone che sono arrivate attraverso il confine terrestre permangano in uno stato di irregolarità indotta, restando bloccate in quello che gli operatori intervistati definiscono un vero e proprio “limbo legale”. Esse temono infatti qualsiasi interazione con le autorità per paura di essere trattenute e deportate, e allo stesso tempo vengono informate che l’unica via percorribile per poter (forse) accedere alla richiesta di asilo è proprio quella di passare attraverso un trattenimento. Quanto alla protezione internazionale, questa trova dei limiti perché “l’individuazione di vittime di torture, violenza sessuale o altri gravi atti di violenza, può avvenire solo a seguito dell’ottenimento di una certificazione medica rilasciata da un ospedale pubblico, a cui, da quanto riferito dai soggetti intervistati, è del tutto impossibile accedere senza essere in possesso di un numero provvisorio che funzioni da tessera sanitaria”.

Per quanto riguarda poi la custodia detentiva di minori, si è espressa la CEDU che, nel 2019, ha asserito che la detenzione di minori come custodia cautelare in Grecia viola l’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

I rimpatri “volontari”

Dopo il terribile terremoto che ha colpito i territori al confine tra Turchia e Siria si è amplificato l’allarme delle ONG, che cercano di evitare che vengano violati i diritti dei richiedenti asilo per scarsità di risorse, o per destinare agli sfollati gli hotspot. La Turchia ospita 3,6 milioni di rifugiati, siriani, afghani, iraniani, pakistani, 4 volte in più della quantità di rifugiati accolti dall’intera Unione Europea e che fanno della Turchia il paese con più rifugiati al mondo. Anche la Turchia a guardia dell’Unione Europea non garantisce sicurezza per i richiedenti asilo: Human Rights Watch parla dell’arresto, della detenzione e della deportazione di centinaia di siriani tra febbraio e luglio 2022.

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Il tentativo di dare una stretta sull’accoglienza si fa sentire forte e chiaro: nel febbraio 2022, il vice ministro dell’Interno turco Ismail Çataklı ha dichiarato che le domande di protezione temporanea e internazionale non sarebbero state accettate in 16 province e che le domande di permesso di soggiorno da parte di stranieri non sarebbero state accettate in nessun quartiere in cui il 25% o più della popolazione fosse composta da stranieri. Mentre lo scorso maggio, il presidente turco ha annunciato l’intenzione di reinsediare un milione di rifugiati nel nord della Siria, in aree non controllate dal governo, anche se la Siria rimane pericolosa per il ritorno dei rifugiati.

La politica della grande accoglienza, insomma, che serve alla Turchia per aprire le trattative di ingresso nell’Ue, comincia a scricchiolare, nella più totale indifferenza dell’Europa che esternalizza la frontiera per esternalizzare, in sostanza, il problema.

A guardia dell’Unione c’è un paese devastato dal terremoto, che ricorre sempre più a pratiche disumane come i rimpatri “volontari”.

Anche in Turchia la detenzione amministrativa, che si può prolungare fino a 12 mesi, è condannata dalle ONG e dai media turchi per le gravi condizioni, mancanti di servizi sanitari e igiene e per la violazione di libertà con maltrattamenti e umiliazioni. Secondo recenti indagini condotte tramite interviste a rifugiati e operatori delle ONG, la firma dei moduli di rimpatrio volontario viene estorta dietro pressioni, abusi psicologici e minacce di arresto, mentre l’incontro con avvocati nei RIC (Registration and Identification Centre) è difficile a causa della macchinosa burocrazia. Il piano dei rimpatri è stato così, negli ultimi anni, istituzionalizzato: l’invito a partire viene gestito dal General Directorate for Migration Management (GDMM) in collaborazione con il Ministero degli Esteri e con la Croce Rossa Turca che dovrebbero predisporre le condizioni per il sostegno ai migranti nei paesi di rimpatrio, tra cui Afghanistan e Siria, in collaborazione con i governi locali.

Nel giugno 2022 – ricorda l’UNHCR – 15.149 rifugiati siriani sono tornati “volontariamente” in Siria e, secondo i dati dell’UE, la Turchia ha rimpatriato 96.201 migranti irregolari nel corso del 2019, di cui circa 55.000 in Afghanistan, in violazione del principio del non-refoulement (non respingimento).

Secondo gli stessi numeri forniti dalle autorità turche, invece, un totale di 315.000 persone sarebbero tornate in Siria in modo del tutto volontario: un dato che denota già di per sé un’assurdità, trattandosi di uomini e donne in fuga da una situazione costante di guerra. Per questa ragione Human Rights Watch ha lanciato un appello all’Europa affinché la Turchia venga considerata luogo “non sicuro” per l’arrivo e lo smistamento dei richiedenti asilo.

Il regolamento sulla protezione temporanea della Turchia garantisce ai rifugiati siriani l’accesso ai servizi di base, tra cui l’istruzione e l’assistenza sanitaria, ma generalmente richiede loro di vivere nella provincia in cui sono registrati. I rifugiati devono ottenere il permesso di viaggiare tra le province e, se vengono trovati al di fuori del territorio consentito, rischiano l’arresto e il rimpatrio.

Sono diverse le testimonianze di arresti improvvisati e processi sommari usati come pretesto per le espulsioni.

Un po’ di numeri

Secondo i dati dell’OIM, nell’ottobre del 2014 sono arrivati in Grecia via mare 41.038 migranti, mentre nel 2022 sono stati “solo” 12.758.

Gli arrivi in Calabria, invece, nel 2022 sono stati 9375, contro i 7.900 del 2021, e i 5700 nel 2019.

Non sappiamo se la “rotta calabrese” che hanno attraversato i 200 migranti trovando la morte nella notte del 26 febbraio, sia – in questi anni – una delle alternative alla politica di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere su tutti gli altri luoghi di sbarco e accoglienza che ci separano dai paesi in guerra, ma è chiaro che l’unico confine aperto, con tutti i suoi rischi, sia ancora, pericolosamente, il mare.

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