Alluvioni in sud-est asiatico, un disastro annunciato

Alluvioni in sud-est asiatico, un disastro annunciato

A tre settimane dalla chiusura della Cop30 a Belém, sono immagini impressionanti quelle che continuano ad arrivare dal sud-est asiatico, colpito tra novembre e dicembre da alluvioni le cui conseguenze sono destinate a lasciare cicatrici profonde nel tessuto economico-sociale delle aree coinvolte. Strade attraversate da fiumi di detriti, ponti spezzati, strutture collassate sotto il peso di acqua e fango, un numero crescente di morti e sfollati a rischio di epidemie, scarsità di cibo e medicine. Sono gli effetti tangibili della crisi climatica, ignorati da una classe politica troppo spesso inadeguata a prevenire e gestire le emergenze.

Stavolta è toccato a Indonesia, Sri Lanka, Thailandia e Malesia.

Quest’ultima devastazione segue mesi di meteo avverso in tutto il sud-est asiatico, inclusi tifoni più violenti del solito che hanno messo in ginocchio prima le Filippine, poi il Vietnam tra inizio e metà novembre. “Le piogge monsoniche sono normali in questa parte del mondo. Tuttavia, le acque dell’Oceano Indiano settentrionale, più calde della media storica a causa del cambiamento climatico, hanno intensificato le tempeste, aggravando le inondazioni associate e il loro impatto” ha precisato Sarah Kew, ricercatrice del Royal Netherlands Meteorological Institute e principale autrice dello studio del gruppo World Weather Attribution pubblicato la scorsa settimana.

Senyar, il ciclone tropicale che si è abbattuto su Indonesia, Thailandia e Malesia, si è formato nello stretto di Malacca il 26 novembre. Si è trattato di un evento piuttosto raro: a ridosso dell’equatore, infatti, i cicloni di solito non riescono a formarsi per l’assenza delle forze di Coriolis, responsabili della rotazione delle masse d’aria necessarie a generarli. Tuttavia, una combinazione di particolari fattori meteorologici come piogge più intense, deforestazione, estrazione mineraria e degrado del suolo, hanno accentuato gli effetti.

Due giorni dopo, il ciclone Ditwah si è violentemente abbattuto su alcune province settentrionali dello Sri Lanka.

Nonostante i progressi nei sistemi di allerta, la resilienza delle comunità sembra ridursi proporzionalmente all’estensione crescente delle aree coinvolte. Si contano già un milione di sfollati, diversi dispersi e più di 1.800 morti, ma le persone impattate sono almeno cinque milioni. C’è una beffarda ironia nel fatto che quello che molti definiscono già il peggior disastro meteorologico degli ultimi anni si sia consumato a pochi giorni da una fallimentare conferenza sul clima.

Prabowo non dichiara l’emergenza nazionale in Indonesia

Nella parte occidentale dell’isola di Sumatra, chi lavora nelle risaie sta provando a salvare quel che resta del raccolto. Una parte è inevitabilmente contaminata, ma per molte comunità è  l’unica fonte di cibo mentre le strade restano bloccate e i soccorsi faticano a raggiungere i villaggi rurali più remoti.

Greenpeace Indonesia accusa il governo di normalizzare i disastri e di scaricare i costi ambientali sulle comunità. La deforestazione, spesso legata alla domanda globale di olio di palma, proprio nelle regioni più impattate come Aceh, Sumatra occidentale e Sumatra settentrionale, è aumentata a dismisura negli ultimi cinque anni. Un’inchiesta del Kompas Data Journalism Team ha evidenziato che le foreste di Aceh scompaiono a un ritmo di quasi 100 ettari al giorno da trent’anni. È cresciuto anche il numero di licenze minerarie (si estraggono carbone, ferro, oro, nichel) e il Mining Advocacy Network (JATAM) ha identificato sovrapposizioni territoriali tra le concessioni minerarie e molte zone colpite: le miniere spesso si trovano lungo dei bacini idrografici critici e contribuiscono all’erosione dei pendii e al degrado dei fiumi, amplificando gli effetti di inondazioni e frane.

Le amministrazioni locali si sono dichiarate incapaci a gestire l’emergenza alluvionale senza una diretta assistenza da parte del governo centrale che, nonostante le forti pressioni, pur avendo stanziato fondi aggiuntivi, dispiegato militari, aerei, elicotteri, navi e inviato aiuti nelle aree interessate, si è rifiutato di dichiarare lo stato di emergenza nazionale e di accettare massicci aiuti dall’estero. Alcuni membri della diaspora indonesiana a Singapore denunciano che gli aiuti umanitari per la popolazione di Sumatra saranno addirittura trattati come merci di importazione e tassati dalle autorità indonesiane, anche se per ora non c’è una dichiarazione ufficiale da parte del governo.

L’amministrazione di Prabowo Subianto ha in passato enfatizzato un modello economico e politico orientato all’autosufficienza. Accettare aiuti stranieri o dichiarare lo stato di emergenza nazionale potrebbe essere interpretato come un segnale di incapacità nella gestione della crisi con risorse proprie e un’implicita ammissione di responsabilità rispetto a disastri aggravati da politiche poco attente all’ambiente, in un contesto già reso delicato dalla perdita di consensi tra i più giovani. Solo tre mesi prima, infatti, gli indonesiani erano scesi in piazza per protestare – oltre che per la violenza crescente della polizia, la disoccupazione e i bassi salari – anche contro l’incompetenza nella gestione del territorio, che antepone gli interessi delle multinazionali alla salvaguardia delle comunità e dell’ambiente. Inoltre, mantenendo il coordinamento interno dei soccorsi e della ricostruzione, il governo preserva il controllo su tempi, modalità e priorità degli interventi, evitando trasparenza e supervisione che verrebbero richieste da attori internazionali.

Abigail Limuria, attivista co-fondatrice della piattaforma di divulgazione politica What Is Up, Indonesia? (WIUI), è molto critica dell’attuale governo e in quest’occasione si dice fortemente scoraggiata per l’incapacità delle istituzioni di ascoltare i cittadini o provare a porre rimedio ai propri errori. Pur non rinnegando l’importanza di chiedere responsabilità al potere, incoraggia lo sviluppo di forme di resilienza collettiva e soluzioni autonome che partono dal basso per “sopravvivere all’incompetenza”. Alcuni utenti sui social sono convinti che per la gestione dell’emergenza stia facendo molto di più l’influencer Ferry Irwandi che il governo centrale. Il fondatore del Malaka Project, iniziativa nata nel 2023 per promuovere educazione civica critica e consapevole tra i giovani, ha organizzato in pochissimo tempo una raccolta di diversi miliardi di rupie per l’acquisto di beni di prima necessità da recapitare nei villaggi più colpiti. “Un’azione dalla gente per la gente”, ha precisato Irwandi.

Per ora, il bilancio solo a Sumatra supera i 900 morti, centinaia di dispersi e milioni di sfollati.

In Sri Lanka danni superiori allo tsunami del 2004

In Sri Lanka, paese fragile dal punto di vista infrastrutturale che ancora risente degli effetti della guerra civile e del collasso economico del 2022, il 28 novembre è arrivato il ciclone Ditwah, provocando un’alluvione e almeno 600 morti. A Jaffna e Mannar, alcune persone di etnia tamil hanno denunciato di non aver ricevuto dal governo notizie nella loro lingua, ma solo in singalese ed inglese. La mancanza di comunicazioni ufficiali in tamil ha creato una situazione di maggiore pericolo per questa comunità storicamente razializzata e marginalizzata.

In queste regioni, specialmente negli ultimi anni, le proteste di attivisti e ambientalisti contro progetti di estrazione mineraria imposti dall’alto sono state spesso depoliticizzate o criminalizzate. L’alluvione ora ha distrutto molte piantagioni di tè e la produzione, dalla quale queste comunità dipendono, potrebbe diminuire drasticamente, privandole della loro principale fonte di sostentamento. Al contrario di quanto fatto da Prabowo in Indonesia, però, il governo centrale dello Sri Lanka ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale. Il Presidente Anura Kumara Dissanayake lo ha definito “il peggior disastro naturale della storia del Paese”. Si stimano perdite economiche per oltre sei miliardi di dollari, tre volte in più rispetto ai danni causati dallo tsunami nel 2004.

Prima della corretta stima delle perdite, però, lo Sri Lanka dovrà concentrarsi sulla gestione dell’emergenza sanitaria. Il Ministero della Salute prevede che i casi di leptospirosi aumenteranno nei distretti colpiti dalle inondazioni, così come il rischio di dengue e  chikungunya. Pur essendo malattie endemiche, la combinazione di acque stagnanti, scarsa pulizia di aree contaminate ed esposizione a campi fangosi sta mettendo migliaia di persone ad alto rischio, in un Paese dal sistema sanitario che arranca.

Le alluvioni di dicembre sono state uno stress test (fallito) per il sud-est asiatico

Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), l’Asia è da anni il continente più colpito al mondo da disastri legati a fenomeni meteorologici: la grande maggioranza delle vittime e dei danni economici deriva proprio da alluvioni e tempeste. Quando le precipitazioni incontrano suoli degradati e bacini idrografici alterati, il risultato è un’escalation di frane e colate di fango, come quelle che nelle ultime settimane hanno travolto Indonesia, Sri Lanka, Thailandia e Malesia.

I dati sulla deforestazione confermano un quadro di vulnerabilità costruita nel tempo. Secondo le analisi satellitari di Global Forest Watch, tra il 2001 e il 2024 l’Indonesia ha perso circa 32 milioni di ettari di copertura arborea, pari al 20% della superficie forestale del 2000. In alcune province di Sumatra, come Utara e Selatan, le perdite raggiungono rispettivamente il 28% e il 47% della copertura originaria. La FAO, attraverso il Global Forest Resources Assessment, documenta una riduzione costante dell’area forestale indonesiana tra il 1990 e il 2020, segnale di un lungo processo di conversione dei suoli verso piantagioni industriali, miniere e infrastrutture.

È in questo intreccio tra crisi climatica globale e uso insostenibile del suolo che vanno letti gli eventi estremi che si verificano con frequenza maggiore e con effetti sempre più devastanti. Disastri classificati come “naturali”, le cui conseguenze sono il risultato diretto di scelte politiche ed economiche che da decenni aumentano la vulnerabilità dei territori. Le alluvioni delle ultime settimane sono state un vero e proprio stress test regionale per il sud-est asiatico, in cui gli estremi climatici si sono scontrati con lacune di governance e degrado ambientale.

Il fallimento della Cop30, conclusa senza risposte concrete per i Paesi maggiormente esposti – né un percorso chiaro per l’uscita dai combustibili fossili, né maggiori finanziamenti per prevenire e affrontare i disastri – conferma che la riduzione delle cause del cambiamento climatico e la mitigazione degli effetti restano ancora fuori dalle agende politiche internazionali.

Condividi

Sullo stesso argomento

4