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Una bolgia di sensazioni
Una bolgia di sensazioni

Fabiana Iacozzilli con il suo spettacolo “Una cosa enorme” spiazza tutti. Porta in scena la questione dell’essere e ci pone davanti alla contrapposizione tra la natura biologica dell’uomo e la sua dimensione razionale ed esistenziale.  La geniale regista pone al centro della propria drammaturgia la gravidanza e le sue implicazioni fisiologiche sul corpo della donna. L’assordante richiamo biologico e sociale, che vede nella maternità il suo compimento, viene messo in discussione. Per non parlare del concetto di cura, relegato al genere femminile che ne ha l’esclusiva. Questi sono solo alcuni dei temi che si sviluppano nella mente dello spettatore. È una bolgia di sensazioni che si richiamano l’un l’altra e ci assordano. Si ha l’impressione di sentire la mente di quanti ci siedono intorno e i loro tumulti interiori, si è tesi come dinanzi a un’imminente caduta. Ciò non significa affatto che lo spettacolo condanni chi lo guarda, bensì che la rappresentazione è talmente forte da rendere impossibile non immedesimarsi.

L’attrice interpretata da Marta Meneghetti è nella sua abitazione ammobiliata solo con un frigo, i fornelli del gas, una poltrona e una pianta morta. I primi due elementi sono funzionali esclusivamente alla dimensione del mantenimento biologico, mentre la poltrona dove un tempo ci si adagiava in una certa quiete, ormai risulta angusta e non più utilizzabile dalla donna che fatica immensamente nel sedersi. La pianta lateralmente giace nella sua arida e spoglia presenza. Perché si è seccata la pianta lo sappiamo tutti e non serve specificarlo, ma siamo sicuri che non facciano la stessa fine anche le parti importanti della nostra vita come le sensazioni, la psiche, i desideri?

I luoghi importanti che ci costituiscono sembrano ineluttabilmente condannati all’abbandono e alla solitudine dopo l’inizio del processo di riproduzione. Li abbiamo riposti nelle remote cantine della memoria. “Abbiamo fatto appassire le rose” diceva il poeta. La madre e la sua enorme pancia sono nell’arida abitazione. Il personaggio ha un fucile, è sulla difensiva, la deriva animalesca della sua condizione la rende protettiva e il gracchiare delle cicogne la fa sragionare, dalla sua bocca escono suoni indecifrabili, metafora sublime di una trasformazione corporea che fagocita l’intelletto. La centralità della domanda “ontologica” ci tiene aggrappati alla scena come la corda che pende in un nodo scorsoio dall’enorme ventre dell’attrice. Da una parte l’eco della vita che cresce in un corpo e scalpita, dall’altra il dubbio sull’autenticità o meno delle proprie percezioni e nel mezzo un interrogativo: il desiderio di maternità può essere un desiderio o è solo un richiamo? La Iacozzili con acutezza osserva il suo tempo togliendo di mezzo le piccole cose, sposta i languidi miasmi andando al nocciolo della questione, guarda in faccia la vita e non ne teme gli abissi. Ci conduce prendendoci per mano. Mescola alla magia del suo teatro la “realtà”. Trascina nel poetico buio d’inizio spettacolo una serie di dialoghi preregistrati sulla questione della maternità; le parole che sentiamo non ci sorprendono ma ci inquietano perché le abbiamo già sentite mille volte nel mondo, dove si perdono nel nulla che ci circonda; mentre in questa occasione sono ascoltate nel teatro ed è proprio per questo che ci fanno rabbrividire.

Il secondo quadro mette in parallelo la condizione dell’infanzia, e la conseguente vulnerabilità, con la vecchiezza. La fragilità è nell’essere richiedenti, la pietas diventa una gabbia. Il bambino è già vecchio e nella scenografia il seggiolino gigante sottolinea la similitudine tra i due stadi della vita. Sono uguali non soltanto nella frangibilità e debolezza ma soprattutto come già accennato, sono condizioni che necessitano di una cura ed è la donna che se ne deve sobbarcare il peso. Di nuovo ci passa davanti agli occhi ciò che eravamo ed è un’immagine che stride forte con quanto vediamo rappresentato. È la peculiarità di una pièce dirompente che riesce a obbligarci a una rappresentazione interiore mentre mette in scena sul palco la tragedia dell’esser nati.

Per il resto non possiamo che invitare i nostri acuti lettori, che sanno ben distinguere tra il teatro d’intrattenimento, cioè quello semplicemente “Kronovoro” e “il Teatro”, ad immergersi nella poetica di Fabiana Iacozzilli.

In conclusione, applaudiamo ancora una volta il minuzioso lavoro attoriale eseguito da Marta Meneghetti. La complessità con cui si è confrontata è visibile e traspare; nel secondo quadro è il fulcro emotivo di tutto lo spettacolo, ci fa sentire a fondo tutto il dramma della sua condizione, lo fa con grande maestria, senza l’ausilio della parola, senza una frase, senza un monologo, ma semplicemente recitando.

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