Marco Piccinelli

Sanità pubblica e privata in Bolivia: una geografia

Sanità pubblica e privata in Bolivia: una geografia

La raffinatezza architettonica non è quel che si direbbe un tratto distintivo delle città boliviane: le abitazioni sono spesso incomplete e la gran parte (se non la totalità) dei palazzi, delle case, dei condomini e degli isolati sono lasciati a mattoni vivi. Ne deriva un colpo d’occhio completamente uniforme, che ci si trovi nella città di La Paz, El Alto, Viacha e via dicendo. Poche tipologie di edifici sfuggono all’uniformità della  ‘dittatura del foratino’: ospedali (dunque ambulatori/centri di salute, unità di pronto soccorso locale), scuole e palazzi governativi.

Scuole e ospedali sono tra gli edifici più curati non solo nelle grandi città ma soprattutto nelle piccole cittadine e nelle lontane comunità montane, anche tra le più distanti dalla capitale: sono gli unici stabili ad essere stati progettati diversamente dal resto delle urbanizzazioni circostanti, nonché ad essere stati curati anche nei dettagli. Facezie a cui spesso il costruttore boliviano non bada.

A El Alto, nella zona di urbanizzazione chiamata “Villa Adela”, persistono (o sarebbe meglio utilizzare il termine “resistono”) due strutture sanitarie statali: il laboratorio di analisi (con anche un piccolo centro di salute) e il policlinico. Entrambi prendono il nome dalla zona in cui sono collocati. Villa Adela è quel che si potrebbe definire “quartiere”, se si dovesse comparare El Alto alle città italiane od europee, tuttavia il paragone risulterebbe maledettamente forzato, oltreché improprio. Nella diseguaglianza generale, a metà tra edifici mezzo costruiti e mezzo abitati, tra strade asfaltate che cedono immediatamente il passo a vie completamente sterrate, alle spalle della centrale “Plaza de la Cruz”, sorge un piccolo “centro di salute” privato chiamato “Jesus obrero” (Gesù operaio).

 

[“Feliz sanidad”] Centro di salute 

La traduzione dell’espressione castigliana “centro de salud” letteralmente e teoricamente sarebbe “centro di salute” e vale tanto per le strutture private quanto per quelle statali. Stiamo parlando di quel che in Italia potrebbe essere un centro di prima assistenza (un centro ambulatoriale, sia perdonata l’espressione impropria) per i pazienti che vi si recano ma il “Jesus obrero” in particolare possiede anche piccoli ambulatori interni per il ricovero di un numero pur limitato di persone, un pronto soccorso e un centro di cure palliative.

Cercare di comprendere una realtà così distante come quella boliviana impone un distacco piuttosto imponente da parte del lettore riguardo la situazione della sanità italiana.

La presidenza di Evo Morales (la prima nello specifico) ha tentato di portare la sanità boliviana ad un livello che fosse il più vicino al bisogno della popolazione cittadina, specie in situazione di rapido ed esteso sviluppo delle realtà urbane attorno a La Paz. Ad esempio El Alto ha superato la popolazione della prima capitale boliviana in neanche trenta anni di vita andando oltre il mezzo milione e provocando conseguentemente un graduale spopolamento di La Paz.

Ma potenza e atto divergono terribilmente, tanto in ambito filosofico quanto legislativo-politico, e nonostante lo sforzo governativo negli anni la questione dell’accesso alle cure rimane una tra le grandi diseguaglianze della Bolivia.

Livelli di assistenza e di intervento

«Il sistema della sanità boliviana è articolato su livelli, dunque esiste un primo, un secondo e un terzo livello» per quel che riguarda la struttura sanitaria nonché l’intervento nell’ambito del contesto sociale in cui è inserita. A parlare è il Dottor Javier Muñoz, nato a Bilbao, responsabile del centro di cure palliative del centro “Jesus obrero”, componente della Fundación Adsis e da tredici anni in missione in Bolivia[1]. Tutto il sistema sanitario boliviano si aggrega attorno all’acronimo Sus (sanità universale e sicura).

«Il primo livello – descrive Muñoz – è quello che potremmo considerare di base: in questi centri, solitamente non molto grandi di dimensione, è possibile trovare un medico pediatra e uno di medicina generale», nonché a personale preposto all’assistenza dei bambini.

Man mano che si sale nella gradazione dell’intervento sanitario boliviano si possono trovare: ambulatori specifici d’intervento per i pazienti, sale d’attesa, piccole sale preposte per i degenti che necessitano di un’operazione chirurgica non troppo invasiva. Dopodiché si hanno veri e propri policlinici e cliniche specializzate, nonché centri ad hoc – come ad esempio quelli oncologici  – che possono essere considerati di quarto livello.

«Sembra tutto molto ordinato e razionale – dice Muñoz – ma in realtà non lo è» e il medico non sembra dirlo dal suo punto di vista peculiare di specialista nel centro di cure palliative in un centro di secondo livello privato (che ormai si autogestisce, che è propaggine della chiesa cattolica, dipendente solo dalla parrocchia omonima e dalla Fundaciòn Sembrando Esperanza), il punto è che i vari gradini della scala rispondono ad autorità diverse. Un esempio? «Il primo e il terzo livello dipendono dal Ministero della salute dello Stato plurinazionale di Bolivia mentre il secondo dipende dall’autorità locale[2]. Questo significa – afferma Muñoz – che se al governo c’è un partito politico e al governo locale un altro, la situazione che ne deriva è decisamente caotica». Rapportare quanto detto alla situazione politica che sta vivendo la Bolivia, dal fraude electoral in poi, fa ben capire cosa intende il dottor Muñoz per “situazione di caos”.

Privato, certo, ma con delle condizioni: «Il centro “Jesus obrero”, così come molte realtà analoghe, fa parte di una rete chiamata “Rete pubblica di assistenza”: forniamo assistenza gratuita per quel che riguarda i vaccini contro il Covid-19, la tubercolosi e quelli relativi all’antirabbica dei cani [3]», dichiara Muñoz.

Già, il Covid-19. Al lettore occidentale torneranno in mente i centri di vaccinazione, la voce nasale del Primo Ministro Conte che annunciava la chiusura totale di scuole e attività produttive e l’esecutivo che lavorava alla luce del sole e non «col favore delle tenebre». In Bolivia solo dal 1 agosto 2023 le autorità di governo hanno interrotto l’utilizzo obbligatorio della mascherina decretando la fine dello stato di emergenza.

«L’intervento nei confronti della cittadinanza nella città di El Alto, dal punto di vista del centro di cure palliative, è quello di fornire un accompagnamento dignitoso del passaggio dalla vita alla morte di malati terminali: moltissimi contraggono il cancro qui». Contrariamente a quanto ipotizzato, forse troppo sbrigativamente da parte di chi scrive, dopo aver visto l’enorme inquinamento sia alteño che paceño, la maggiore incidenza di tumori nella popolazione non è all’apparato respiratorio o cardiaco. Muñoz: «nella popolazione femminile riscontriamo un’altissima incidenza di tumori al collo dell’utero e alla cervice uterina, in quella maschile allo stomaco e a tutto l’apparato digerente in generale».

 

Gli ambulatori pubblici delle comunità montane

Cairoma, 2.494 anime, poco distante da Viloco, è un centro abitato situato a poco più di 4600 metri d’altitudine. Seppur distante svariate ore (sei, tre di autostrada e tre su uno sterrato con continui strapiombi) di automobile dalla Capitale, è parte di quello che in Italia tempo fa avremmo chiamato “provincia” di La Paz, ma la legge locale preferisce il termine “municipio”. Così, Cairoma fa parte di uno degli 87 municipi del territorio di La Paz. La regione di Loyaza (di cui è parte anche Cairoma) è montana e piuttosto estesa (3.360 chilometri quadri): la popolazione locale è aymara così come lo è la prima lingua, solo in secondo luogo viene parlato il castigliano; le strade sono tutte sterrate e non sono agevoli per scambi e spostamenti frequenti da un centro abitato all’altro.

Si fa presto a dire “La Paz!”. Chi abita i luoghi di questi territori ha poche scelte: andare a lavorare in miniera a Viloco, lavorare i campi oppure andare via e dirigersi verso La Paz. Cairoma, ai piedi dell’Illimani e della cordigliera, rappresenta una piccola-grande attrazione per i centri limitrofi di Acha Pampa, Huerta Grande, Machacamarca, Tucurpaya, Colpani, Torre Pampa, Yunga Yunga.
Tuttavia in ogni comunità, in ogni centro abitato piccolo o grande che sia, ci sono tre cose fondamentali per far sì che la popolazione non scappi troppo in fretta: una “unidad educativa”, ovvero l’equivalente di un Istituto Comprensivo; un “centro de salud”, cioè un piccolo ambulatorio che può anche – ma non sempre – avere piccole stanze per ricoveri; un campo di calcio che spesso è utilizzato anche da campo di futsal e pallacanestro, essendo state costruite anche le porte più piccole con sopra il cesto da basket. Il tutto è decisamente versatile e adattabile alla circostanza.

Al “Centro de salud” di Cairoma veniamo accolti dalla directora Patricia Guarachi Flores e dall’operatrice ausiliaria con più anzianità di servizio Rosa Patricia Quispe Chambi.

La direttrice è nata a Cairoma ma la vita l’ha portata a trasferirsi in un’altra comunità: «Vengo da Yunga Yunga[4] e risiedo qui al centro per ventidue giorni al mese, con otto giorni di riposo dal lavoro». Per la verità le due comunità distano solamente cinque chilometri ma, a causa delle strade, c’è da mettere in conto un viaggio da compiersi rigorosamente con mezzo privato (macchina) e che può durare anche un’ora (sola andata).

«In teoria potremmo tornare a casa dopo le otto ore lavorative ma praticamente dormiamo tutte e tutti qui», dice Guarachi Flores «la famiglia è praticamente abbandonata» dice sconsolata mentre culla suo figlio in carrozzina. Poi fa spallucce: «asì es el trabajo[5]», così è il lavoro, «il salario è solo per le ore lavorate perché il contratto prevederebbe il ritorno a casa, ma – come detto – la strada è piuttosto lunga e allora rimaniamo qui. Certo: se ci dovessero essere emergenze notturne, in quel caso prendiamo di più». Ad ogni modo, va considerata molta frammentazione contrattuale del personale presente nei vari centri, come già accennava Muñoz del centro “Jesus Obrero”: gli autisti dei mezzi (ambulanze e mezzi di trasporto per campagne di prevenzione e vaccinali) vengono contrattualizzati dal governo municipale autonomo locale, il personale medico è diviso a metà tra chi è nominato dall’alcaldìa e da altre istituzioni, allo stesso modo vale per gli infermieri. Lo stipendio base per un’infermiera si aggira attorno ai 2.800 bolivianos mensili, ovvero poco più di 380€. Potrebbe sembrare una buona retribuzione per gli standard a cui è abituata la Bolivia, ma la direttrice ci informa che le infermiere e gli infermieri non hanno diritto a rimborsi per la distanza o a sgravi fiscali come accade per il personale medico. «Medici, dottori e chirurghi partono da una base di 6.000 bolivianos»,  poco più di 800€.

Ambulatori, interventi, parti in casa

L’organizzazione del lavoro è piuttosto complessa per delle unità di intervento come quella in oggetto: all’interno del municipio di La Paz si distingue la rete di intervento urbano[6] e la rete di intervento rurale. Il centro di salute di Cairoma fa parte della rete rurale di ambulatori e ha: «quattro aree territoriali limitrofe d’intervento per emergenze, vaccinazioni, parti e interventi di primo soccorso. Così come c’è qui a Cairoma è presente a Viloco», afferma la direttrice. «Se c’è un’emergenza, a seconda della vicinanza con il centro più vicino, interveniamo e forniamo assistenza gratuita a quel paziente, qualora – ovviamente – sia iscritto al registro pubblico di cittadinanza». Avere una residenza equivale a poter usufruire alla sanità pubblica. «Ci sono persone, però, che non risultano nel registro» e preferiscono l’assistenza privata, «anche se dobbiamo comunque fornire un’assistenza minima anche per loro»: le persone che «pagano un’assicurazione sanitaria o che sono iscritte ad una cassa professionale hanno diritto ad altro tipo di intervento». La realtà di La Paz, in cui è possibile venire curati da una struttura privata, non è replicabile ai piedi della cordigliera: la sola struttura che recepisce l’iniziativa privata in ambito sanitario di tutta la provincia di Loyaza è a Viloco. C’è poi anche chi non ha un documento: «i bambini fino a un anno non hanno carta d’identità o non sono registrati con un certificato di nascita, spesso a causa della famiglia».

Nascere a 4500 metri d’altezza

Sebbene i centri abitati del territorio di Loyaza abbiano numeri piuttosto contenuti, i bambini rappresentano una fetta molto grande della popolazione locale. «Fino ad oggi, al mese di agosto, ci sono stati nove parti dall’inizio dell’anno nella cittadina di Cairoma: quattro nel centro di salute e cinque a domicilio», ha dichiarato la direttrice. All’anno, in media, ci sono venti o trenta parti.

L’intervento sanitario, ad ogni modo, deve tener conto del retroterra culturale della popolazione aymara: le vaccinazioni non sempre sono accettate dalle popolazione (specie se si tratta di quelle legate al Covid-19), i rimedi sono naturali e in generale c’è diffidenza verso ospedalizzazioni e medicazioni. Se si tratta di parti e di nascite  che coinvolgono ragazze minori o da poco maggiorenni, la questione è ancora più accentuata. «Molte famiglie preferiscono non rivelare che la loro figlia è in stato interessante: a volte siamo chiamati a intervenire per far partorire la puerpera che non ha effettuato neanche un controllo preliminare». Lo stigma sociale è piuttosto forte. «Si partorisce in casa in molti casi» ha dichiarato l’ausiliare infermiera Rosa Patricia Quispe Chambi: «non è un male la nascita in casa, ma a Cairoma non ci sono ostetriche e personale specializzato. D’altra parte, la donna che rimane incinta  non sempre ha interesse nel seguire un percorso di monitoraggio della gravidanza: il nostro intervento, spesso, è solo nella fase finale della gravidanza nonché della nascita». «Dobbiamo essere sempre pronte all’emergenza: se dovessero presentarsi complicazioni, dobbiamo andare in città, a La Paz», dicono sorridenti Flores e Chambi ma la domanda sorge spontanea: “sono cinque ore di macchina, come riuscite a gestire un’emergenza con distanze così ampie e una strada così impervia?”. Sorridono: «corremos como locos!», corriamo come pazzi.

[1] https://www.fundacionadsis.org/es/quienes-somos

[2] Il termine che ha utilizzato Muñoz è stato “alcaldia”. Letteralmente l’alcalde è una figura a metà tra il sindaco e il presidente di regione. Esiste anche una “sub alcaldia”: anche in questo caso, se rapportato all’Italia, potrebbe essere considerato tra un vicario e un sottoposto dell’alcalde.

[3] Sebbene possa sembrare un tema secondario, in realtà non lo è affatto. A La Paz e soprattutto a El Alto è facilissimo trovare gruppi di cani randagi inseguire macchine, moto, terrorizzare ignari passanti, cercare cibo nei cumuli di immondizia ai lati della strada, bere acqua dai canali di scolo delle fognature (specialmente a El Alto).  Molti hanno un padrone ma è proprio quest’ultimo a disinteressarsi dell’animale. Sovente accade che un cane si trovi nel bel mezzo delle trafficatissime strade della città rischiando la vita. Non è affatto raro trovare carcasse di cani ai lati delle autostrade (non illuminate) che portano a Copacabana o a Patacamaya. Vien da sé che il tema dell’antirabbica non è secondario sia a La Paz, sia a El Alto.

[4] Letteralmente yunga significa “foresta”. In aymara quando una parola si ripete sta a significare un rafforzativo o una demarcazione in senso più forte di quella parola. In questo caso possiamo presupporre che il riferimento sia al fatto che la foresta sia più fitta del normale.

[5] “Così è il lavoro”.

[6] In tutto sono quindici reti rurali, Cairoma fa parte della quattordicesima e comprende le aree di Cairoma, per l’appunto, Malla, Luribai e Yaco. La rete urbana, d’altra parte, non comprende altre città al di fuori di El Alto e La Paz

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