Sabato Angieri

La reazione israeliana all’Iran e la paura dell’escalation

La reazione israeliana all’Iran e la paura dell’escalation

L’attesa per la decisione di Israele sulla risposta all’attacco iraniano tiene il mondo con il fiato sospeso. Alcune indiscrezioni riportate dal quotidiano israeliano Haaretz parlano di un attacco previsto per questo fine settimana, prima del Pesach, il periodo di festa della Pasqua ebraica, oppure, «aspetteranno una decina di giorni» si legge nell’editoriale di Anshel Pfeffer.

Se non siamo ancora all’escalation militare, di certo stiamo vivendo quella emotiva. Le redazioni estere dei giornali sono concentrate sulle notizie dal Medioriente 24 ore su 24, la diplomazia vive l’iperattività delle grandi crisi internazionali e la paura cresce. Siamo lontani dai luoghi dove i Pasdaran iraniani hanno lanciato oltre 300 tra missili e droni lo scorso sabato. E anche dalle basi sperdute nelle montagne semi-desertiche del vasto territorio controllato dall’Ayatollah che Tel Aviv potrebbe decidere di colpire per rappresaglia. Ma alcuni dei nostri principali alleati sono coinvolti e anche se gli Usa hanno più volte dichiarato di non volere una guerra, l’unica certezza che abbiamo è che qualcosa succederà. Il punto è capire cosa.

«Risponderemo nel momento, nel luogo e nel modo che riterremo più adatto» ha detto Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra israeliano, ex capo di stato maggiore dell’esercito e leader dell’opposizione politica a Netanyahu. Parole che non lasciano adito a dubbi, ma che insinuano una speranza, seppure tenue: Israele potrebbe non rispondere subito e la crisi, almeno per ora, potrebbe essere rimandata. In questi casi, come spiegano la maggior parte degli analisti, il tempo è il miglior alleato della distensione. Non che i governi come Israele o l’Iran dimentichino gli affronti, soprattutto se si tratta di stabilire un punto o dimostrare la propria forza. Le ipotesi per ora sul tavolo sono diverse. La più impegnativa è un’operazione in grande stile con gli F-35 in volo per oltre 2000 km verso le basi dove Teheran sta sviluppando il suo programma nucleare. Ma queste strutture, come quella di Fordow, sono costruite 80 metri sotto il suolo di una montagna e per danneggiarle servirebbero degli ordigni che a quanto pare Israele non possiede. Altrimenti si potrebbero colpire altri siti militari, magari le basi di lancio. In ultima analisi si sta valutando un attacco cibernetico su larga scala volto a bloccare i sistemi telematici del Paese. Ma una serie di botta e risposta potrebbe trasformarsi rapidamente in una guerra; diversamente si resterebbe alle azioni e alle ritorsioni, che tra Teheran e Tel Aviv vanno avanti da decenni. Secondo il Washington post i rapporti tra i tre membri di spicco del gabinetto di guerra israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e Benny Gantz, ex capo di stato maggiore dell’esercito, sono tesissimi. Netanyahu non ha affatto gradito il viaggio di Gantz negli Usa e si è affrettato a dichiarare che il suo ex ministro non avrebbe potuto prendere «nessuna decisione».

Ora, con l’operazione militare nella Striscia di Gaza giunta al suo sesto mese e oltre 30mila morti palestinesi, il governo israeliano è concentrato sulla fase finale dell’offensiva: Rafah. Proprio questa decisione ha provocato l’ira del presidente statunitense Joe Biden che ha stabilito una sorta di linea rossa. «Se Israele entrerà a Rafah il sostegno militare Usa potrebbe ridimensionarsi di molto» hanno lasciato intendere fonti interne alla Casa Bianca. Ma l’attacco iraniano ha rinsaldato le alleanze, lasciando in secondo piano i dissapori recenti in nome della lotta al nemico comune. Tuttavia, a novembre oltreoceano si terranno le elezioni presidenziali e Biden non può assolutamente permettersi un’altra guerra. I sondaggi ci dicono che la nomina del prossimo presidente degli Stati Uniti potrebbe dipendere molto dal contesto internazionale: i cittadini statunitensi sono stanchi dei conflitti e vorrebbero chiudere quelli in corso, non iniziarne un altro.

La politica estera delle grandi potenze però non risponde ai desideri dei cittadini, deve impegnarsi a mantenere i rapporti di forza. Ed è per questo che, anche prescindendo dalle conseguenze, se si volesse mettere in atto una rappresaglia immediata non sarebbe così semplice. «Va costruita un’alleanza globale perché Teheran è una minaccia globale» ha detto Gantz, lasciando intendere alcune delle maggiori preoccupazioni di Israele (e degli Usa). Bisogna tranquillizzare i vicini mediorientali che il conflitto non si allargherà. «Non accetteremo di diventare campo di battaglia tra le due potenze» hanno infatti dichiarato i giordani. Già, perché nonostante tutto, i caccia di Amman la notte di sabato si sono alzati in volo per monitorare lo sciame di ordigni e droni diretti in Israele. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno inoltre contribuito a fornire assistenza di intelligence a Israele. Ora nessuno di questi Paesi vuole una guerra con l’Iran perché il rischio di destabilizzare l’intera regione è troppo alto. Netanyahu deve tenerne conto se non vuole mandare in fumo anni e anni di lavorio diplomatico portato avanti per pacificare la regione in nome della prosperità economica e della cancellazione della «questione palestinese» dall’agenda dei vicini arabi. Così come gli Usa, che oltre all’escalation militare temono anche un eventuale innalzamento del prezzo del petrolio, altro elemento fortemente negativo per la campagna elettorale di Biden.

Diversi giornalisti hanno evocato il 1991, quando l’allora premier israeliano Yitzhak Shamir decise di non rispondere alle decine di missili lanciati da Saddam Hussein sul suo territorio. Bush senior convinse il capo di stato ad attendere, gli Usa stessi erano pronti a intervenire nel Golfo. Ora qualcuno auspica lo stesso finale. Ma quello era il mondo in cui Washington decideva per tutti, le cose sono un po’ cambiate ultimamente e Netanyahu stesso non sembra così convinto di poter tenere a freno i falchi all’interno del gabinetto di guerra. Sempre che Bibi non decida di essere ancora più rapace e di continuare la sua strategia di guerra continua per allontanare ancora le elezioni che, a quanto dicono i sondaggi, lo costringerebbero ad abbandonare la poltrona di primo ministro.

L’Iran intanto attende e promette “una risposta senza precedenti” se sarà attaccato.

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