Dalle torture in Libia ai centri in Albania: l’operazione Albania fallisce per la terza volta

Dalle torture in Libia ai centri in Albania: l’operazione Albania fallisce per la terza volta

Nessuno dei due migranti (un egiziano e un bangladese) con cui Rachele Scarpa (PD) ha parlato qualche giorno fa all’hotspot di Shengjin aveva in programma di venire in Italia. «Erano partiti per la Libia per lavorare» riporta Scarpa, in Albania per monitorare la situazione dei 49 migranti (poi 43: quattro i minorenni, due i “vulnerabili”) intercettati dalla nave della marina militare Cassiopea. «Appena arrivati, sono stati sequestrati dalla polizia libica e consegnati nelle mani dei trafficanti. Da loro hanno subito torture, abusi e ricatti tra i 10.000 e i 25.000 euro, alle famiglie hanno inviato i video dei pestaggi. Pagato l’altissimo riscatto, sono stati messi con la forza su un barchino». Il resto della storia si incrocia, per caso, con quella dell’Italia. I cui centri di detenzione albanesi nessuno dei due conosceva prima del 28 gennaio.

Salta all’occhio la differenza con i due trasferimenti albanesi precedenti: il numero. E il motivo, infatti, c’è: «Sulla Cassiopea mancava l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, agenzia delle Nazioni Unite specializzata in materia e che garantiva la terzietà delle operazioni», spiega Scarpa. «La valutazione su questa nave è invece stata fatta dal personale medico della marina militare, che non si occupa di immigrazione nemmeno in Italia e che non può garantire imparzialità».Il contratto con l’Oim è scaduto il 10 gennaio. Non è stato rinnovato, né un’altra organizzazione è stata designata per questo scopo.

Tutte le 43 persone detenute hanno presentato richiesta d’asilo, ma solo una è stata accolta. Incalza in merito alla gestione delle procedure Amnesty International, per conto del Tavolo Asilo: «Siamo entrati dentro il centro di Gjader durante le audizioni con la commissione territoriale. La valutazione delle vulnerabilità è effettuata in maniera molto veloce» denunciavano il 29 gennaio Papia Aktar e Francesco Ferri. «Non tutte le vulnerabilità riescono ad emergere. In generale, la valutazione ultrarapida delle domande implica la mancanza di consapevolezza di queste persone, che non possono esercitare pienamente il loro diritto. Il Tavolo asilo chiede la chiusura dei centri e il trasferimento di tutte le persone in Italia».

E così è stato. Dopo più di due giorni di detenzione, tutte le persone sono state liberate «poiché per effetto della sospensione è impossibile osservare il termine di 48 ore previsto per la convalida», come si legge sul dispositivo.

I precedenti

L’Italia ci ha riprovato, dopo che per due volte (a ottobre e novembre) la Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma già non aveva convalidato il trattenimento dei migranti in quanto provenienti da Paesi non considerati sicuri. «I criteri per la designazione di uno Stato come Paese di origine sicuro sono stabiliti dal diritto dell’Unione europea», aveva spiegato la presidente Sangiovanni all’indomani delle polemiche della maggioranza contro la decisione della magistratura.

Maggioranza che aveva votato un emendamento apposito, ribattezzato emendamento Musk dopo che l’uomo più ricco del mondo aveva commentato la decisione dei magistrati con un laconico “se ne devono andare” (riferito ai giudici) e con cui si trasferiva la competenza dal Tribunale romano alla Corte D’Appello all’interno del Decreto Flussi, convertito in legge a dicembre. Per mancanza di organico, però, il presidente della Corte Giovanni Meliadò si era visto costretto a cercare altri giudici, specificando però che avrebbe dato «la preferenza ai magistrati che esercitano gli stessi compiti che sono chiamati a svolgere presso l’ufficio di destinazione». È così che sei magistrati del Tribunale di Roma sono stati trasferiti in Corte d’Appello.

Anche la lista dei paesi considerati sicuri dall’Italia con il decreto-legge 158/2024 era stata modificata, riducendola da 22 a 19 ed escludendo Camerun, Nigeria e Colombia, ben consapevole che l’ultima parola spetta all’Unione Europea.

Per il 25 febbraio è attesa la pronuncia nel merito della Corte di Giustizia. Nel frattempo, fallisce per la terza volta “l’operazione Albania”, già sotto attacco per violazione dei diritti umani e del codice di deontologia medica. «Ribadiamo le nostre preoccupazioni rispetto al rischio di violazione dei diritti umani e alle gravi implicazioni medico-sanitarie del Protocollo Italia-Albania» si legge in un appello diffuso da Medici senza frontiere e altre organizzazioni. «Rinnoviamo il nostro appello affinché le realtà istituzionali e professionali coinvolte o meno nel Protocollo Italia-Albania ne prendano le distanze».

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Foto di Marco Oriolesi su Unsplash