Afgani: I rifugiati fantasma

Afgani: I rifugiati fantasma

Afgani-Rifugiati

Il 14 giugno 2023, appena una settimana prima della giornata mondiale del rifugiato indetta dalle Nazioni Unite per il 20 giugno, un peschereccio con settecentocinquanta persone a bordo (tra cui cento bambini), partito dalla Libia e diretto in Italia, si è ribaltato nel Mar Egeo, causando la morte di di un numero imprecisato di persone: di certo c’è solo il numero dei superstiti, appena centoquattro. Se questo dato venisse confermato, quello a sud di Pylos si attesterebbe come l’incidente marittimo che ha coinvolto migranti più grave della storia, superando quello di Cutro del febbraio 2023.

La maggior parte delle persone morte nel naufragio al largo delle coste calabresi erano di nazionalità afghana. Tra queste, è rimasta uccisa la giornalista Torpekai Amarkhel con la sua famiglia, in fuga come gli altri dal regime talebano. Al potere dal 15 agosto 2021, grazie agli accordi di Doha del febbraio 2020 firmati da Donald Trump e successivamente confermati dall’amministrazione Biden, le forze talebane si sono riprese gradualmente il paese dopo vent’anni, costringendo la popolazione a migrare a causa della situazione interna di estrema povertà e pericolosità. Secondo i dati dell’UNHCR, attualmente l’Afghanistan è la terza nazionalità al mondo per numero di rifugiati, dopo Siria e Ucraina, per un totale di 5.7 milioni di persone fuori dal paese e 24 milioni di sfollati interni.

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Pesantemente colpito dalla pandemia di Covid-19, l’Afghanistan versa in una grave crisi generale: milioni di persone, tra cui migliaia di bambini, rischiano di morire di fame a causa della difficoltà di accesso al cibo e per via della pesantissima crisi economica. Inoltre, da settembre 2021 sono stati ristabiliti obblighi, divieti e punizioni nei confronti delle donne: vietato lavorare e studiare a quasi tutti i gradi di istruzione e uscire di casa se non accompagnate, ripristinate le violenze corporali, la lapidazione e l’obbligo di indossare il burqa. Le afghane vivono insomma da recluse dentro le loro abitazioni, tanto che alcuni esperti delle Nazioni Unite proprio lo scorso maggio hanno denunciato «i diffusi problemi di salute mentale e l’escalation di suicidi tra donne e ragazze».

Una volontaria di Baobab Experience, organizzazione presente a Roma che offre assistenza gratuita ai migranti, ha raccontato all’«Atlante editoriale» che «alcuni afghani fuggono perché perseguitati dai talebani per avere collaborato con le forze di occupazione occidentali, per esempio per aver semplicemente lavorato in organizzazioni di emancipazione femminile o di natura medico-sanitaria per le campagne di vaccinazione; altri scappano perché la crisi economica successiva alla presa di potere da parte dei telebani ha impoverito milioni di persone. In quest’ultimo caso il mandato migratorio è quello di trovare un lavoro per riuscire a mandare i soldi a casa e far sopravvivere le proprie famiglie».

Dal canto suo, la risposta dell’Unione Europea alla migrazione afghana è stata ricorrere a una pratica già definita illegale da Amnesty International (in quanto non tiene conto delle violazioni dei diritti umani nei paesi limitrofi), ovvero quella dell’esternalizzazione delle frontiere, nel vano tentativo di contenere il naturale fenomeno della migrazione. La maggior parte dei profughi afghani, infatti, è accolta da due paesi limitrofi, ovvero Pakistan e Iran, finanziati direttamente per “gestirli” e tenerli così lontani dall’Europa.

Come denunciava già nell’ottobre 2021 la giornalista Annalisa Camilli su «Internazionale», gli afghani in fuga vengono respinte violentemente dalle autorità di Grecia, Croazia, Romania e Ungheria, così come al confine tra Italia e Slovenia, dalle cui autorità vengono rimandate in Bosnia-Erzegovina. Secondo quanto testimoniato da alcune organizzazioni per i diritti umani, gli afghani che tentano di entrare in Turchia per raggiungere l’Europa subiscono percosse, respingimenti, violenze e, addirittura, rapimenti con richieste di riscatto.

Sembrano insomma lontani i tempi dei (pochi) ponti aerei umanitari con i quali gli afghani potevano allontanarsi da Kabul in maniera sicura. Tuttavia, nonostante l’indifferenza dei governi europei, le persone continuano a fuggire da fame, povertà e persecuzioni, anche se per farlo devono rischiare la vita.

Julie Turkewitz, reporter del New York Times, ha raccontato l’incredibile rotta di 25.000 chilometri affrontata da migliaia di uomini e donne afghane per arrivare negli Stati Uniti, attraversando decine di stati e due continenti, per poi percorrere la pericolosa regione del Darién, una terra di nessuno nelle mani dei trafficanti che separa la Colombia da Panama, unico modo per arrivare a piedi dall’America latina agli Usa.

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È questo quello che Baobab Experience definisce come «l’esempio perfetto di quello che vediamo accadere: l’impazzimento delle rotte. Una questione che non riguarda solo gli afghani, ma che è il risultato dell’esternalizzazione delle frontiere e del pattugliamento dei confini». Baobab Experience denuncia che la maggior parte dei profughi afghani che arriva in Italia nel tentativo di entrare in Europa scappa proprio dall’Iran: «Alcuni arrivano a Roma nascosti in un container di un camion partito dalla Grecia alla volta dell’Italia, attraversando Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia o lungo la rotta che salpa dalla Turchia sulle coste del nostro Paese». Tuttavia la rotta mediterranea fa sempre più paura, così molti migranti preferiscono provare a passare per i Balcani, in diversi modi: «Superando il muro ungherese di filo spinato» spiega la volontaria ad «Atlante editoriale», «provando il boat-game (ovvero il tentativo di raggiungere la frontiera europea con piccole imbarcazioni) sulla Drina o sulla Sava, mentre altri si arrampicano sulle montagne che separano la Bosnia dalla Croazia».

«Al presidio di Baobab Experience si rivolgono soprattutto giovani e giovanissimi, i soli in grado di affrontare rotte così pericolose e faticose» spiega la volontaria «Ma ci sono anche i nuclei familiari. Con bambini e anziani, impiegano anni per raggiungere l’Europa, dal momento che la corsa a ostacoli è molto più complessa. Sono migliaia di donne e uomini che ridisegnano percorsi impossibili per sopravvivere al viaggio stesso».

La cui meta finale, tuttavia, non è quasi mai l’Italia. «Seppideh soffre di asma e, lungo i sentieri impervi che tagliano le montagne verso la Croazia, la Slovenia e l’Italia, cammina molto piano. Troppo piano per fuggire alla polizia di confine» racconta ancora la volontaria «L’ultima volta è stata bloccata al terzo giorno di cammino. È rimasta ferma, con sua figlia e suo figlio, costretta a guardare mentre Masha, il marito, veniva picchiato dagli agenti croati. Loro sono arrivati in Italia dopo otto anni di viaggio, a piedi, distrutti. Ma non vogliono restare: sanno che l’Italia non è un paese aperto al momento, sanno che non c’è accoglienza e che incontreranno solo ostacoli nel loro cammino di integrazione. Come molti altri scelgono come ultima tappa la Germania». L’Unione Europea conferma tuttavia la via dell’indifferenza alla situazione generale dei migranti: lo si è visto durante il Consiglio dei ministri dell’interno europei dell’8 giugno dove sono state riformate le procedure di frontiera e gestione dell’asilo e dove ha vinto la linea italiana (simile a quella statunitense) dei respingimenti e del disinteresse, sebbene, dati alla mano, gli stati europei siano quelli che accolgono il minor numero di rifugiati, che si trovano confinati appunto nei paesi terzi limitrofi, spesso non sicuri.

L’8 giugno è stata confermata la linea delle tragedie del mare, insomma. Eppure, ricorda la volontaria di Baobab Experience: «I passaggi sicuri sono possibili e rappresentano la sola concreta gestione di un fenomeno che è naturale e fisiologico, non emergenziale né patologico: quello della migrazione. Non metterli in atto significa abbandonare donne, uomini e bambini alla tratta e alla rete di trafficanti e facilitatori, italiani e stranieri, che dalla Sicilia a Ventimiglia, dall’Afghanistan alla Francia, lucrano sulla vita degli esseri umani, in un sistema criminale sempre più capillare e ramificato. Lo abbiamo visto con Cutro. Lo abbiamo rivisto nel Mar Egeo. Ma non basta. Non basterà mai».

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