Questo articolo è stato pubblicato su “Il Manifesto” del 13/02/2021 e l’autore lo replica qui insieme a una selezione di foto dal confine.
“Siamo pronti a combattere, il loro esercito è più potente ma noi ci difenderemo, sarà guerriglia” dichiara Simon di fronte alle foto di caduti e di prigionieri ucraini torturati in Piazza della Libertà a Kharkiv.
Qui dal 2014 è montata una tenda da campo militare che funziona un po’ come un sacrario locale e un po’ come un punto di riferimento per le manifestazioni nazionaliste. “Nel 2014 dei gruppi filorussi hanno occupato il palazzo del municipio qui di fronte” continua Simon, “per giorni ci sono stati combattimenti, poi sono arrivate le forze speciali e hanno riconquistato la città, questa tenda ricorda quei giorni”. È un ragazzo di media statura e piuttosto magro, lavora come documentarista e dice che il suo contributo non sarà in prima linea, sul fronte, ma dalle retrovie. E invece quelli che in prima linea smaniano per andarci, i gruppi di volontari e quelli di estrema destra come il Battaglione Azov? “Sono persone che hanno il culto della guerra, amano le armi e spesso si rifanno a ideologie fasciste, ma sono combattenti valorosi e sul fronte ci servono”. La risposta di Simon è comune tra chi non si professa di destra in questo momento nel Paese. Quasi come a dire “se proprio vogliono morire, lo facciano contro i russi”. In realtà è troppo semplicistico ridurre il discorso a una questione di contingenze. Primo, perché questi gruppi, nati come volontari poco dopo l’inizio delle ostilità nella regione del Donbass, oggi sono parte integrante dell’esercito nazionale. Secondo, perché negli anni si sono distinti per operazioni classificate come “crimini di guerra” da Amnesty International e dagli osservatori dell’OSCE. Terzo, perché in un momento di tensione crescente un certo tipo di retorica fa presa sull’opinione pubblica il che ha degli effetti anche sulle decisioni del governo. Eppure, Simon e decine di altri intervistati si sono dimostrati poco interessati a tali problematiche, rispondendo più o meno sempre la stessa cosa: “alle elezioni politiche in Ucraina le formazioni di estrema destra non arrivano neanche al 3%, ci sono dei neonazisti, come in tutti gli stati, anche in Italia ce ne saranno, no?”. Sì, ma l’Italia al momento non è sull’orlo di una guerra e non ha assimilato nel proprio esercito gruppi paramilitari che avevano nel proprio stemma un simbolo usato dalle SS di Hitler. Ad ogni modo, sia che si tratti della voglia di “difendere la propria terra”, sia che intervengano nella scelta motivi personali, in un sondaggio condotto a fine gennaio un ucraino su tre in età abile si è detto pronto ad arruolarsi in caso di conflitto con la Russia. Il che, unito alle esercitazioni settimanali dei cosiddetti “battaglioni territoriali” ci fanno trarre una prima conclusione: la società ucraina si è militarizzata in questi ultimi anni e l’esercito non è percepito più come un corpo parallelo alla società civile, ma ne sta segnando alcune abitudini.
“È una necessità”, mi spiega Aleksej, proprietario di un pub in centro. “Io prima ero un cosmopolita, non me n’era mai importato nulla dei discorsi sulla patria e il resto della retorica. Oggi però sono un nazionalista, sono stato costretto a diventare un nazionalista da Putin, che il più grande fascista vivente”. Ma perché costretto? “Perché non voglio che si ripeta un altro Donbass, un’altra Crimea, non voglio che facciamo la fine della Georgia”. Aleksej racconta che la Crimea era il suo luogo del cuore, ci andava per rilassarsi, “per staccare qualche giorno non appena potevo. Lì la natura è bellissima, il cielo di notte è mozzafiato e le spiagge…”. Quando la Crimea è stata annessa ala Russia la sua visione delle cose è cambiata, ma neanche lui, come Simon, si è arruolato direttamente. “Ho organizzato l’acquisto e la distribuzione di presidi medici che qui mancavano, ma non per l’esercito, per i volontari; quello è stato il mio contributo”. Questa sorta di “mobilitazione totale” pre-conflitto è comune in Ucraina. In molti, soprattutto della classe media sentono di “dover fare la propria parte”. Ad esempio, nei pressi della frontiera con la Russia, in un villaggio di poche case chiamato Kozacha Lopan’ siamo stati seguiti da una coppia, padre e figlio, che dopo aver confabulato tra loro per un po’ si sono avvicinati e hanno chiesto “giornalisti?”. Non si sono fidati e hanno chiamato la polizia, potevamo (ai loro occhi) essere benissimo delle spie russe. La linea di confine sopra Karkhiv fa una curva di qualche centinaio di km e arriva a Oleksandrivka, ai lati delle strade non si riesce a soffermarsi su nessun punto: è solo bianco a perdita d’occhio. Gli analisti internazionali dicono che se davvero Mosca decidesse di invadere via terra potrebbe farlo da qui, ma che in tal caso dovrebbe sbrigarsi perché i carrarmati hanno bisogno di terreno compatto per avanzare.
Negli ultimi giorni le medie sono state superiori a quelle stagionali e il ghiaccio inizia a sciogliersi, il rischio che i mezzi militari si impantino è alto. In quest’area i villaggi sono collegati da strade a una corsia che tagliano la steppa senza mai dare riposo agli occhi, se non sugli sporadici alberi secchi o sulle orrende pensiline degli autobus di cemento che, persino qui, danno riparo a qualche coraggioso in attesa. Su alcuni negozi si leggono ancora le scritte in russo, su altri sono state sostituite dall’ucraino. Non si dimentichi che una delle grandi battaglie di Zelenskyj nell’ultimo anno è stata proprio quella linguistica, forse, a suo modo di vedere, eliminare il russo dalle scuole era un modo efficace per stroncare le pretese di Putin sulle aree dove la popolazione è ancora a maggioranza russofona. Ma per questo ci vorrà del tempo (e, sinceramente, speriamo non si completi del tutto la disgregazione culturale dei rapporti tra questi due storici vicini), nel frattempo si parla la lingua dell’attesa angosciosa, del sospetto, dell’aggressività.