La rotta del Darién: il “sogno americano” dei rifugiati afghani

La rotta del Darién: il “sogno americano” dei rifugiati afghani

Darién
New York Times

Dopo i voli del 2021 con cui sono state evacuate 88500 persone, gli afghani cui gli USA hanno concesso asilo sono appena 25000, mentre sono stati accolti come rifugiati in terra americana più di 300.000 ucraini

 

Quando nell’agosto 2021 gli USA abbandonarono l’Afghanistan nelle mani dei talebani, non tutti coloro che provarono a fuggire scelsero l’Europa come meta finale del loro viaggio. Alcuni, infatti hanno deciso di fissare la loro meta molto più lontano: gli Stati Uniti d’America. Passando per il Darién, una montuosa e pericolosa terra di nessuno nelle mani dei trafficanti che separa la Colombia da Panama, è possibile arrivare a piedi al confine che divide il Messico dal Nordamerica. Tra le persone che percorrono questa incredibile rotta lunga 25.000 chilometri c’è anche la classe media afghana formatasi negli anni dell’occupazione occidentale e che ha creduto nella possibilità di una democrazia afghana: sono avvocati, membri del governo afghano, difensori dei diritti umani, ora perseguitati dal governo fondamentalista. Soprattutto se donne.

Julie Turkewitz, reporter del New York Times, ha documentato il viaggio di un gruppo di cinquantaquattro rifugiati afghani nel tentativo di attraversare il Darién. Tra queste persone c’è Taiba che, fino ad agosto 2021, è stata un’alta funzionaria del governo afghano. La donna ha studiato Legge (impensabile nell’Afghanistan di oggi, che ha vietato le scuole alle bambine e alle ragazze) e racconta a Turkewitz di aver profondamente creduto in un Afghanistan democratico. Perciò «ha lavorato con gli americani per combattere la violenza contro le donne e si è occupata della tutela dei diritti femminili raccogliendo testimonianze per incarcerare i loro aguzzini». Gli stessi che nell’agosto 2021 hanno ufficialmente preso il potere costringendola così alla fuga con Ali, suo marito, traduttore per le truppe spagnole e poi per una impresa legata alle Nazioni Unite.

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Ali e Taiba raccontano a Turkewitz che, prima di fuggire in Pakistan e spostarsi con altri afghani verso l’America del Sud, hanno provato a fare domanda di ingresso in diversi paesi occidentali dove avevano lavorato. In seguito, hanno fatto richiesta di partecipazione a un programma per rifugiati per entrare negli USA, senza mai ricevere risposta. Una situazione molto comune: attualmente infatti, secondo il New York Times, dopo i voli del 2021 con cui sono state evacuate 88500 persone, gli afghani cui gli USA hanno concesso asilo sono appena 25000, mentre sono stati accolti come rifugiati in terra americana più di 300.000 ucraini.

In assenza di alternative, Ali e Taiba insieme al figlio di due anni si sono spostati con altri afghani dal Pakistan verso l’America del Sud. La maggior parte di loro, spiega Turkewitz, parte alla volta degli Stati Uniti dopo aver raggiunto in aereo il Brasile, paese che offre visti umanitari agli afghani, ma dove guadagnare abbastanza per mantenere le numerose famiglie di origine è difficile, visto che il salario minimo garantito è di soli 250 dollari al mese. Così i profughi proseguono il loro viaggio, che arrivano a pagare fino a più di diecimila dollari a persona.

Sono anni che migliaia di migranti attraversano la giungla del Sud America nel tentativo di arrivare a Nord, ma la presenza degli afghani è una novità: secondo il conteggio dei funzionari di Panama, infatti, dal 2010 al 2019 se ne contano solo cento. Attualmente, cento è il numero degli afghani che, in un mese, affrontano il Darién, l’unico modo di giungere via terra dal Sud America agli Stati Uniti e che Turkewitz descrive come un paesaggio di morte: «Fiumi che trasportano cadaveri, pendenze che provocano infarti, fango che quasi inghiotte i bambini, criminali che rapinano, sequestrano, aggrediscono e uccidono». Nonostante ciò, spiega la reporter, è pubblicizzato su piattaforme come TikTok, Facebook e WhatsApp come se fosse una scampagnata in famiglia: «Sicuro. 100% affidabile. Pacchetti speciali».

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Secondo i dati di Panama riportati dal New York Times, dal 2010 al 2020 meno di undicimila migranti all’anno hanno attraversato questa regione impervia. Da quest’anno, invece, sono attese fino a 400.000 persone dirette verso gli Stati Uniti e provenienti da paesi come Venezuela, Haiti ed Ecuador, ma anche da Cina, India, Nigeria, Somalia e altri Paesi.

Non stupisce allora che l’amministrazione Biden voglia chiudere la rotta e rendere ancora più difficile l’ingresso negli Stati Uniti per i richiedenti asilo. Afghani compresi. Nella totale indifferenza del fatto che la migrazione è un fenomeno naturale, impossibile da fermare con muri e burocrazia, proprio come conferma Ali, medico, al New York Times: «Se mi respingeranno dieci volte, dieci volte ci riproverò».

E del fatto che se non sono i governi a occuparsi dei migranti, ci penseranno i trafficanti. Turkewitz racconta infatti che i contrabbandieri offrono veri e propri pacchetti viaggio, come la “rotta VIP” di cui le parla Taiba: al costo di 420 dollari a persona invece di 300, il viaggio è ridotto a quattro giorni invece di otto o nove.

Il gruppo di persone seguito da Julie Turkewitz supera a stento il viaggio, facendosi largo nella vegetazione a colpi di machete. Poco dopo essere riusciti a entrare a Panama, la reporter racconta che Taiba, Ali e il figlioletto hanno attraversato a piedi, in barca, in camion, in macchina e autobus il Costa Rica, il Nicaragua, l’Honduras, il Guatemala, fino a giungere a Tijuana.

Nell’aprile 2023, dopo un anno di cammino, Taiba e la sua famiglia superano il muro che divide il Messico dagli Stati Uniti. Pensano di avercela fatta, quando la polizia di frontiera statunitense li preleva e li rinchiude in un centro di detenzione. Qui, racconta la donna, i funzionari consegnano loro dei documenti con cui vengono bollati come «stranieri presenti negli Stati Uniti», e quindi soggetti a deportazione. Il 30 giugno 2025, in un’udienza fissata a Boston (dall’altra parte del Paese), potranno opporsi all’espulsione. In ogni caso, per richiedere l’asilo devono affrontare la procedura da soli o con un avvocato, ma fino ad allora non possono lavorare, spiega Turkewitz, vanificando così (almeno per ora) la ragione fondamentale del loro viaggio. Attualmente vivono a New York, dove una associazione ha offerto loro un posto dove stare. Ali aveva sempre creduto che il Darién sarebbe stata la parte più difficile del viaggio, racconta alla giornalista. «Ma quando siamo usciti dalla giungla, abbiamo visto che non era così».

Sembra essere questo il «sogno americano» che l’amministrazione Biden riserva agli afghani, abbandonati dopo vent’anni nelle mani dei talebani. Ma il vero fallimento statunitense, più che quello dell’agosto 2021, è la gestione della crisi umanitaria in corso: un incubo di giungle, muri, burocrazia e prigioni dove non c’è spazio per coloro che, in un Afghanistan democratico, avevano creduto.

 

 

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Foto di Marco Oriolesi su Unsplash