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Infinito, l’universo di Luigi Ghirri nel film di Matteo Parisini

Infinito, l’universo di Luigi Ghirri nel film di Matteo Parisini

Il lavoro di Matteo Parisini racconta l’importanza del “vedere”, di ampliare lo sguardo e lo fa narrando la ricerca umana e artistica di Luigi Ghirri. Il documentario “Infinito” ha il fine di far conoscere allo spettatore l’esperienza sensibile di Ghirri, la sua teoria e i suoi codici del bello. A partire dal vasto Archivio Ghirri, Parisini lascia la parola ad amici e familiari dell’artista. La voce di Accorsi è il veicolo per entrare nell’immaginario della provincia Emiliana che Ghirri nelle sue fotografie e nei suoi scritti offre secondo un nuovo punto di vista. L’esperienza e il vissuto dell’artista trovano la loro espressione visiva nelle sue opere, il film mette in luce la ricerca di una vita che Ghirri ha portato avanti per spogliare il suo sguardo e recuperare un modo di vedere attento e più ampio per superare il concetto di confine. Parisini oltre a restituire questo pensiero lo mette in pratica nel suo film.

Perché un documentario su Ghirri?

Ho conosciuto il lavoro di Ghirri, per una vicinanza territoriale e perché mi piace la fotografia e lui ne è uno dei massimi esponenti del secolo scorso. Le sue opere non sono storicizzate, in momenti diversi, ci vedi cose diverse, sono sempre attuali, cosa notata anche da Paolo Barbaro, suo amico e storico della fotografia all’università di Parma, attraverso le interpretazioni dei suoi studenti. Per me è affascinante, perché di solito la fotografia è associata all’attimo più che a una rielaborazione inconscia come invece avviene nella pittura e nella musica. Dopo il primo incontro con le sue immagini mi è capitato di leggere un libro che raccoglie i suoi scritti di una vita. Ghirri è un pensatore, un intellettuale dell’immagine a 360 gradi. Leggendo il libro ho avuto certezza della pienezza del suo percorso ed è iniziata la mia ricerca”.

Memoria e provincia, come si legano nella ricerca di Ghirri?

Al centro del suo lavoro di educazione all’immagine c’è la memoria, non come chiave nostalgica ma fantastica, cioè un uso della fantasia per rielaborare la memoria personale. I suoi lavori partivano da un progetto poi usciva di casa, cercava immagini che aveva già in testa e questo è ciò che cambia la fotografia Italiana e non solo. Da questo momento la fotografia trasforma lo stile Alinari, turistico, classica di paesaggio, in uno che invita a lasciare da parte i monumenti e raccontare la città e la provincia dal punto di vista della memoria personale. Fotografava i luoghi del vissuto, per rivedere cose smarrite “di se’”.

Quanto dobbiamo togliere dal nostro sguardo per riuscire a vedere ciò che abbiamo davanti?

È ciò che insegna Ghirri, un lavoro infinito. Il titolo del documentario non è casuale, “Infinito” perché quello che ci racconta lui con il suo percorso umano e artistico è che l’educazione allo sguardo non finisce mai. Il lavoro di sottrazione e di ricerca per ritrovare uno sguardo “puro” va portato avanti, appunto, all’infinito. Lui presta attenzione a ciò che non si vede più. Già negli anni ’70 parlava di pornografia dell’immagine che non permetteva di vedere più la bellezza per prestare attenzione a cose scontate. La gente guarda e non vede, Ghirri lo dice, bisogna tornare a vedere”.

Qual è stato il processo di adattamento tra la dimensione sonora e le immagini?

Per raccontare un fotografo si parte dalla fotografia, in questo caso sono partito dagli scritti e dall’ambiente sonoro. Il suono porta alla dimensione cinematografica, stavo facendo un film e alle fotografie volevo dare un altro tipo di vita. Ghirri diceva che è importante vedere dentro la fotografia, ma anche quello che c’è fuori, perché ciò che non vediamo, è la nostra immaginazione, che poi è l’interpretazione della fotografia, e volevo restituirla con il suono. La colonna sonora è composta da suoni d’ambiente che sono associabili all’immagine, e da mie suggestioni davanti alle fotografie di Ghirri. La musica va incontro al concetto della memoria vista in chiave fantastica, parte da Nino Rota come ispirazione e poi l’abbiamo rielaborata”.

Qual’è stato il percorso di realizzazione del film?

Avevo chiari l’inizio e la fine. Il film parte con un lungo zoom sulla fotografia della luna, che è la foto da cui inizia la ricerca di Ghirri, su cui lui ha scritto un testo che apre il documentario, e si conclude con l’idea di fotografare il cielo per 365 giorni. Poche persone alzano gli occhi al cielo, secondo me, invece è una cosa che andrebbe fatta, perché il cielo cambia, come noi, anche se ce ne dimentichiamo. Il resto del film è un viaggio con Ghirri, all’inizio pensavo di andare da una parte, invece sono andato da un’altra. Per un documentario è normale perché è meno scritto rispetto a un film di finzione, si basa su incontri, su scoperte, soprattutto quando hai a disposizione un archivio con 140 mila negativi. Le scatole che li contengono hanno aperto infiniti mondi e suggestioni, è stato bello perché imprevedibile“.

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