Greta Cristini

La tentazione isolazionista: il fronte interno di Biden

La tentazione isolazionista: il fronte interno di Biden

Con l’invasione russa dell’Ucraina, gli Usa hanno iniziato un processo di rimaneggiamento della propria proiezione sui quadranti più importanti del globo. Per decidere come farlo, tuttavia, non guardano al fiume Dnipro, bensì al bacino del Mississippi. Volgono cioè lo sguardo alla propria terra, da qualche decennio abitata da subbugli crescenti che stanno ridefinendo il carattere a stelle e strisce. D’altronde, i diversi atteggiamenti di estroflessione degli Usa sono il prodotto del sentimento dominante o latente nella società americana. La calma o i sommovimenti domestici fra MidwestDeep South e coste (in ordine di importanza) determinano l’umore americano nei rapporti e nei conflitti con il resto del mondo. In nuce: la politica interna decide le priorità della politica estera statunitense. Questo concetto non è esportabile a tutte le potenze. Per la Russia, ad esempio, vale il principio opposto: la percezione esterna determina il sentimento di dentro. L’immagine di potenza grandiosa e temibile, forte del suo esercito, funge da collante fra centro e periferie dell’ex impero. Se la vittoria traballa, se l’armata crolla, l’homo sovieticus esigerebbe probabilmente la testa dello zar. Putin lo sa bene.
putin vs biden Usa
In America, alcuni dissidi socio-culturali sono atrofizzati nel tessuto connettivo della popolazione. Dilemmi fisiologicamente irrisolvibili perché congeniti alla Costituzione, quindi all’idea di nazione. Gli aggiustamenti giuridico-politici del 1787 furono infatti frutto di un compromesso inevitabile per tenere insieme le diverse anime del paese ancora in fieri. Per questo, e puntualmente nei momenti di crisi, certe questioni ataviche resuscitano fra le prime pagine dei giornali. La società statunitense è insomma irredimibile dal peccato originale della nazione: una ciclica discordia su cosa significa essere americano e quali caratteristiche sono di volta in volta necessarie per dirsi a real American. Anche per questo bisogna considerare che la tempistica dell’invasione decisa da Vladimir Putin, pur con qualche errore di calcolo, non è peregrina. Mosca era ben consapevole della vulnerabilità e introversione americana in questo passaggio storico fondamentale e delicatissimo per la ridefinizione del way of life statunitense.
Il caos politico-istituzionale all’ordine del giorno non determina l’instabilità del fronte interno. Ne è il prodotto. Non solo. Il processo legislativo a Washington è immobile per volontà dei Padri costituenti che rifuggivano l’autorità, l’oppressione dello Stato, spettro della monarchia. Intendevano quindi proteggere il cittadino dalla politica. Il progetto di George Washington e Thomas Jefferson concepiva lo Stato come strumento a protezione della vita privata dei cittadini, e guardava alla sfera intima e familiare degli americani come l’aspetto essenziale della vita della nazione. L’interesse americano era dunque la cura della vita privata del cittadino. La politica era sì una necessità inevitabile, ma andava ridotta al minimo. Non è un caso che tutte le crisi presenti nel discorso pubblico odierno e che attanagliano il Congresso riguardino essenzialmente la dimensione più intima dell’individuo e il suo rapporto con l’interferenza dello Stato: fino a che punto poter decidere come meglio disporre del proprio corpo; fino a che punto poter difendere la propria incolumità fisica. Per non menzionare il discorso razziale, ancora oggi  nocciolo duro della instabile convivenza fra i cittadini statunitensi, nonché della crepa costituzionale che fu il compromesso dei tre quinti. La stasi di Washington proviene dalla disfunzionalità che la Costituzione prevede attraverso il meccanismo dei “pesi e contrappesi” (check and balances) che finiscono per bloccare qualsiasi spinta normativa, nonché a delegare ad altre istituzioni come la Corte Suprema, la Fed e l’apparato militare prerogative spropositate e formalmente avulse da quello specifico centro di potere. La paralisi istituzionale è quindi risvolto di faide socio-culturali sempre più aggressive. A dimostrarlo, uno studio del 2020 che evidenzia come i matrimoni tra persone di razze diverse, in passato proibiti, ora sono in costante aumento. Lo stesso non si può dire per la politica: i matrimoni trasversali ai partiti sono in calo. Oggi, solo il 21% dei matrimoni è “politicamente misto”, e solo il 3,6% avviene tra democratici e repubblicani. Se prima degli anni 2000, l’orgoglio di essere americano superava le divisioni politiche, oggi la polarizzazione ideologica ha la meglio sull’unico vero collante degli Stati Uniti che abbia mai funzionato. Il culto liturgico di sé in quanto americano e del proprio popolo in quanto eletto a civilizzatore del mondo. Accade raramente, ma ciclicamente nella storia statunitense. È un passaggio dovuto.
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La faglia culturale sull’aborto è un altro esempio piuttosto immediato. Dopo la decisione della Corte Suprema dello scorso 24 giugno di ribaltare la sentenza Roe v. Wade,  precedente fondamentale che ha fatto giurisprudenza per mezzo secolo, la maggior parte degli aborti è ora vietata in almeno 13 Stati. In molti altri, la battaglia legale infuria fra Stati conservatori e tribunali minorili che non si allineano al nuovo dettato costituzionale. Non solo il diritto, anche la politica. Di fronte alla proposta di un divieto nazionale di aborto di 15 settimane presentata questi giorni dal senatore Lindsey Graham, nessuno dentro il Gop è d’accordo: c’è chi vorrebbe la proibizione dell’aborto dopo 6 settimane di gravidanza e chi, soprattutto, ritiene che la questione debba essere lasciata ai singoli Stati. Anche il fronte repubblicano è quindi spaccato sul tema. Quasi fosse una gara a chi è più conservatore.
Il tema delle armi è un’altra questione che puntualmente torna in auge. Regolari sono gli episodi di violenza armata, l’ultimo nella scuola elementare di Uvalde, Texas, del 24 maggio scorso. Più significativa è stata però la sparatoria di Highland Park del 4 luglio, giorno dell’Indipendenza, a Chicago, Illinois, in pieno Midwest, cuore della nazione. Sintomo di un malessere diffuso che inizia a vincere il senso di unità e coesione irrorato dalla sacralità dell’Independence Day. In fermento da più prospettive, la problematica ci riconsegna oggi un panorama frammentato che invero risale ai tempi della guerra d’indipendenza. L’industria americana delle armi da fuoco è nata nell’area di Springfield, Massachusetts. Fu George Washington a creare la Springfield Armory nel 1770, il principale centro di fabbricazione e vero e proprio arsenale bellico a sostegno della guerra d’Indipendenza contro la corona britannica. La regione era così popolata da diverse compagnie di armi da essere conosciuta come Gun Valley. Sebbene il nord-est abbia dominato la produzione di armi fino ai nostri giorni, tuttavia, l’area circostante ha progressivamente approvato leggi sempre più rigorose sul loro controllo. Nell’ultimo decennio il cambiamento è diventato evidente. Le grandi aziende manifatturiere hanno lasciato gli Stati del nord-est alla ricerca di politiche più amichevoli, principalmente nel sud e nell’ovest. Nello specifico, almeno 20 produttori di armi hanno trasferito la propria sede o produzione dagli stati democratici a quelli repubblicani, dislocando migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di dollari di investimenti verso Texas, Wyoming, Alabama e Georgia. Le imprese sono state attratte dalle agevolazioni fiscali e dalla promessa di manodopera a basso costo. Ma il fattore più importante deriva dalla tensione verso leggi più severe sulle armi diffusa in molti degli Stati democratici. Il risultato è un’industria delle armi sempre più radicata in Dixieland e, in misura minore, nella parte occidentale, con conseguente sfilacciamento dei legami con il Midwest. A conferma delle spaccature geografiche sul tema, un sondaggio del Pew Research Center del 2021 racconta che gli americani delle aree rurali (tendenzialmente repubblicane) continuano a prediligere un più ampio accesso alle armi, mentre gli americani delle aree urbane (tendenzialmente democratiche) preferiscono politiche più restrittive.
guns Usa
Il fenomeno relativo all’industria delle armi dovrebbe esacerbare un già polarizzato agone politico, con membri del Congresso eletti dal Profondo Sud sempre più contrari a legislazioni stringenti sul diritto di possedere armi, e parlamentari democratici sempre più in difficoltà nel condurre campagna elettorale sul secondo emendamento in questa parte d’America. Poco prima che Joe Biden venisse insediato come nuovo presidente, il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha prodotto un documento concordato con tutti i principali leader politici e tecnici che si occupano di strategia in Usa dal titolo “A Foreign Politics for the Middle class”, ovvero una geopolitica per la classe media. Dal testo si desume che oggi la principale preoccupazione dell’America non proviene tanto dalla Cina quanto piuttosto dalla condizione domestica, cioè dal senso di deprivazione di rango e di importanza che soprattutto la classe media, bianca, di origine anglosassone e germanica, vive a causa del momento geopolitico e socioeconomico del paese. La priorità strategica degli Usa non è cambiata dal 24 febbraio. Resta innanzitutto, e come riportato nel documento, l’America. Ma sparigliando le carte, Putin ha costretto gli americani a prestare nuovamente attenzione anche al Vecchio Continente, semi-protettorato Usa. Il primo dilemma statunitense oggi parte quindi dall’impossibilità di trattare le questioni domestiche come priorità, a causa della distrazione provocata dal rientro in pompa magna della Russia in Europa. Washington non può concentrarsi a pieno sul proprio fronte interno e non può concentrarsi a pieno fuori da sé, dalla difesa dei confini europei nell’area cuscinetto aldilà del Vistola, alla difesa del proprio dominio marittimo nell’Indopacifico. Essere un “impero nascosto” ai propri cittadini significa ora per gli Stati Uniti ritrovarsi le mani in pasta dappertutto, senza sapere davvero bene cosa farci. Gli Usa hanno certamente in mente la gerarchia di strategicità fra Ucraina e Taiwan. La domanda da porsi è se l’affacciarsi di un giano bifronte sino-russo all’orizzonte quale nemico alternativo all’egemonia occidentale a guida statunitense non possa anche ricomporre quel processo di aut- logoramento interno a cui gli Usa vanno incontro, sin dall’anteguerra.

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