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Il ritorno di Casanova

Il ritorno di Casanova

Dopo una pausa di due anni, Gabriele Salvatores torna al cinema con quella che per sua stessa ammissione è la sua opera più intima. “Il Ritorno di Casanova”, presentato in anteprima il 24 marzo al Bifest e uscito nelle sale il 31 dello stesso mese, è liberamente tratto dall’omonimo racconto di Arthur Schnitzler e vede il regista nativo di Napoli nel doppio ruolo di regista e sceneggiatore (la sceneggiatura è firmata anche da Umberto Contarello e Sara Mosetti).

La pellicola mostra due diversi piani di realtà che procedono contemporaneamente e che si legano tra loro: da una parte abbiamo il regista Leo Bernardi, autore affermato alle prese con il traumatico rapporto con il tempo che passa e con la postproduzione del suo ultimo film su Giacomo Casanova; dall’altra abbiamo proprio il Casanova personaggio, un uomo incapace di accettare la sopravvenuta vecchiaia e desideroso di rivivere le focose passioni giovanili.

I due personaggi, uno l’alter ego dell’altro, svolgono a loro volta la funzione di doppelgänger di Salvatores stesso, che decide di dividersi per rappresentarsi al meglio. I due personaggi infatti, nonostante abbiano moltissime similitudini, sono anche molto diversi tra loro.

Il rapporto che li lega, e che in senso lato lega le due vicende mostrate sullo schermo, è di natura chiastica: se è vero infatti che entrambi soffrono per l’inesorabile trascorrere del tempo e per l’arrivo della vecchiaia, uno ha paura di vivere mentre l’altro, al contrario di non vivere abbastanza ardentemente.

Prima della sua uscita, e in alcuni casi anche dopo, il film è stato accostato per certi versi a “8½”, il capolavoro di Federico Fellini. Tuttavia, a mio avviso le similitudini tra i due film sono poche, non così profonde e soprattutto legate alla forma più che al significato. La tentazione principale che porta ad accomunare i due film è il topos legato alla crisi del regista (personaggio protagonista in entrambe le opere). Un paragone che però si rivela ad un occhio più attento, superficiale e inesatto: Guido Anselmi, il protagonista del film di Fellini, è in preda ad una crisi artistica; Leo Bernardi invece vive una sorta di tardiva e generica crisi di mezz’età; per di più il modo in cui Salvatores mette in scena tale crisi risulta piuttosto banale e riduttivo. In un film così volutamente intimo e personale ci si aspetterebbe che la rappresentazione di situazioni di così forte inquietudine siano messe in scena con originalità, caratteristica di cui purtroppo il film non gode.

La regia vede nel doppio tra realtà e fantasia e nel discorso metacinematografico il suo fulcro. Tralasciando la scelta esplicita di figurare la realtà vissuta dal personaggio di Bernardi in bianco e nero e la fantasia cinematografica vissuta da Casanova a colori, tra le due vicende narrate c’è un vero e proprio cambio di registro stilistico, a volte anche a distanza di poche scene; tale scelta contribuisce a caratterizzare bene il tono simile ma diverso delle due storie che compongono il film. La fotografia, curata da Italo Petriccione (storico collaboratore di Salvatores), è buona ed è uno degli elementi migliori di tutto il film.

Il cast, composto da nomi altisonanti del panorama cinematografico è ben assortito e restituisce buone interpretazioni, seppur la maggior parte dei comprimari soffra di una scrittura dei personaggi molto approssimativa. Gli attori che spiccano, com’è facile aspettarsi, sono i due protagonisti: Toni Servillo, che interpreta Leo Bernardi, e Fabrizio Bentivoglio, che interpreta Casanova. Il confronto tra i due pende tuttavia verso il lato di Bentivoglio, che a mio avviso, seppur appaia di meno in scena, fagocita l’attenzione del pubblico. L’interpretazione di Servillo, seppur nel complesso buona, sembra soffrire dei troppi cliché di cui l’attore campano si serve per interpretare un personaggio in crisi.

Per concludere, seppur “Il Ritorno di Casanova” sia un film nel complesso sufficiente, Salvatores fallisce in tutti gli obiettivi prefissati e non riesce a comunicare in modo convincente quella forte sensazione di turbamento da cui il film prende vita.

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