Fra le paludi e i canneti della contea di Ochopee, nel sud della Florida, negli ultimi mesi la nuova amministrazione Trump ha implementato i lavori per erigere un nuovo centro di detenzione per migranti considerati irregolari. Inaugurato lo scorso 1 luglio alla presenza di Donald Trump, del segretario alla Homeland Security Kristi Noem e del governatore della Florida Ron DeSantis, questo vero e proprio centro di detenzione è stato sin da subito definito Alligator Alcatraz: il riferimento è alla prigione di massima sicurezza situata su un’isola della baia di San Francisco, attiva fino a metà anni Sessanta, e al fatto che il centro di detenzione in Florida è circondato per miglia e miglia da acque infestate da alligatori e serpenti, il che renderebbe estremamente pericolosa una eventuale fuga dei prigionieri. Il primo gruppo di detenuti, in buona parte catturati durante i raid dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) contro migranti senza documenti che di solito non hanno commesso alcun reato, è arrivato nella struttura il 3 luglio, e da allora è continuato sia l’afflusso di prigionieri, sia i lavori di ampliamento del campo, che per ora procedono a rilento. Intanto, secondo un ultimo sondaggio circa il 50% dei cittadini statunitensi è contrario alla costruzione di Alligator Alcatraz, che da più parti è descritto ormai come un vero e proprio campo di concentramento nazista.
Come si costruisce un campo di concentramento
Alligator Alcatraz è solo l’ultima – e forse la più spettacolarizzata – azione dell’amministrazione Trump in materia di controllo dell’immigrazione irregolare. Il centro, inaugurato lo scorso 3 luglio 2025, è stato costruito in appena otto giorni su un vecchio aeroporto dismesso nella regione delle Everglades e accessibile solo dalla strada statale 41. Il complesso è stato eretto con tende “heavy duty” (una sorta di enormi gazebo in pvc), container in metallo e gabbie circondate da filo spinato, e può ospitare in teoria fino a 5.000 persone: tuttavia si tratta di un dato parziale: nell’area di 78 chilometri quadrati occupata dal centro, i detenuti ad oggi sono alcune centinaia, ma il numero massimo potrebbe ben presto salire a 11.000 persone, senza contare che questi centri molto spesso vengono mantenuti in stato di sovraffollamento, vista la difficoltà per osservatori indipendenti di organizzare delle ispezioni. All’interno del centro, decine di migranti – pare oltre i trenta per gabbia – condividono strutture con sbarre metalliche, senza finestre né orologi, sotto luci accese 24 ore su 24. Molti prigionieri, raggiunti da alcuni giornalisti, avrebbero dichiarato che il cibo sarebbe infestato da vermi, i servizi igienici (uno per ogni gabbia, aperti alla vista) sarebbero spesso intasati e i pavimenti allagati da acque nere, mentre fonti interne riportano carenze d’acqua potabile, sanificazione inesistente e totale assenza di adeguata assistenza medica. Alle autorità – di solito i parlamentari democratici che vorrebbero verificare le condizioni del centro – è vietato l’accesso senza preavviso, e secondo il New Yorker molti detenuti presenti nel centro non compaiono nemmeno nei database ICE, rendendo impossibile per gli avvocati individuare i propri clienti. Il centro, che costa circa 450 milioni di dollari all’anno, ha un costo per detenuto stimato fino a 411 dollari al giorno.
Secondo le ultime notizie fra i detenuti nel centro ci sarebbero anche due italiani. Si tratta di Gaetano Cateno Mirabella Costa (nato a Taormina il 12 luglio 1980), e Fernando Eduardo Artese (nato a Buenos Aires il 19 settembre 1961, titolare anche di cittadinanza argentina). Mirabella Costa è stato arrestato a gennaio per detenzione irregolare di sostanze stupefacenti e per aggressione, sarebbe ora sotto indagine per presunta violazione delle politiche migratorie statunitensi, e sarebbe stato trasferito nel nuovo centro di detenzione lo scorso 9 luglio. «Siamo letteralmente in un gabbia, come i polli» ha dichiarato Costa, «Siamo in 32 persone in ogni gabbia, i bagni sono aperti, tutti ti vedono. Non ho avuto nemmeno la possibilità di parlare con un avvocato e nemmeno con un giudice». La madre del prigioniero, Rosanna Mirabella Costa, ha raccontato al Tg2 le condizioni di prigionia del figlio: «lo hanno portato in prigione con catene ai piedi e catene alle mani, come un cane». Artese, invece, non avrebbe nessun record criminale a proprio carico: residente alle Canarie, sarebbe stato fermato dalla polizia per un normale controllo e sarebbe stato trovato in possesso di un Esta – un permesso temporaneo per motivi di turismo – pur svolgendo attività lavorativa in modo continuativo negli Stati Uniti. «Questo è un campo di concentramento. Ci trattano come criminali, è un tentativo continuo di umiliare i prigionieri», ha raccontato Artese al Tampa Bay Times. «Siamo tutti lavoratori e persone che lottano per le nostre famiglie». Secondo le ultime ricostruzioni, le autorità italiane starebbero tentando di mettersi in contatto con quelle statunitensi per favorire il rimpatrio dei due connazionali.
La questione ambientale e le proteste dei nativi americani
L’uso spettacolarizzato della fauna presente nelle Everglades nasconde il grave impatto ambientale che la costruzione del centro di detenzione sta avendo su tutta l’area. Le Everglades sono un ecosistema unico al mondo, in cui migliaia di rettili convivono in un contesto di biodiversità estremamente ampio. La propaganda terroristica che ruota intorno a pitoni, alligatori e coccodrilli — spesso ritratti come minacce mostruose — rivela non solo un tentativo di distrazione dalle vere problematiche ambientali che la costruzione del centro comporta, ma anche una profonda ignoranza, alimentata da retorica MAGA, sulla reale etologia di questi animali. In realtà, si tratta perlopiù di specie pacifiche, che evitano l’uomo e attaccano solo se minacciate. Sfruttare il loro aspetto e la leggenda nera che le circonda per terrorizzare l’opinione pubblica serve solo a giustificare la speculazione edilizia in un’area che dovrebbe essere protetta, in quanto inserita nella riserva naturale del Big Cypress National Reserve. Intanto, le bonifiche e le costruzioni necessarie alla costruzione e all’ampliamento di Alligator Alcatraz distruggono le paludi, causano la morte di migliaia di esemplari di specie protette (si, anche gli alligatori), sconvolgono i cicli migratori e alterano l’equilibrio fragile che tiene in vita questo habitat.
Fra i pochi a preoccuparsi dei danni ambientali che la costruzione del centro sta comportando, le tribù di nativi americani che vivono in alcune riserve entro le quali il territorio di Alligator Alcatraz sarebbe in realtà compreso. La popolazione dei Miccosukee, in particolare, denuncia da mesi lo scempio ecologico in corso e l’assenza totale di consultazione nei processi decisionali della tribù indigena – che vive nella Miccosukee Indian Reservation, il cui territorio comprende l’area del centro di detenzione. Secondo i leader della comunità, il centro viola non solo la sacralità dei territori ancestrali di questa popolazione, che sono riconosciuti a livello federale e sui quali non si potrebbe costruire senza il consenso della comunità, ma anche diritti riconosciuti a livello federale e internazionale. Le attività di cantiere hanno già compromesso zone cruciali per la pesca e la raccolta di piante medicinali, spezzando il legame millenario tra questo popolo e la sua terra. A peggiorare le cose, il continuo sorvolo di droni e mezzi militari ha reso invivibile un’area che era – e in teroia ancora è – di esclusiva proprietà di queste popolazioni indigene. Dunque quella attorno ad Aligator Alcatraz non è soltanto una questione ambientale, ma questa si interseca alla lotta per la dignità, l’autodeterminazione e la memoria dei nativi americani.
Le carceri statunitensi: una questione privata
Ma perché la cattura e la detenzione di un largo numero di migranti senza documenti sembra essere diventata una delle priorità assolute del Governo statunitense? Da un lato le ragioni sono di tipo propagandistico: Donald Trump e la sua amministrazione si sono presentati come il “governo del fare”: garantendo migliaia di arresti ogni giorno, l’esecutivo dà l’impressione alla popolazione di esercitare il pugno di ferro contro i migranti considerati illegali. Si tratta, naturalmente, di uno specchietto per le allodole: nessuna politica concreta è stata strutturata finora per risolvere la problematica a lungo termine, preferendo un semplice potenziamento dell’agenzia che si occupa di arresti e deportazioni (ICE, Immigration and Customs Enforcement), rispondendo così ad una pura e semplice logica muscolare.
Ma dietro alla propaganda MAGA si nascondono, come sempre accade, interessi economici ben precisi. Il sistema carcerario statunitense è sempre stato, ed è diventato ancora di più negli ultimi decenni, un’industria a scopo di lucro, dove la detenzione è diventata un affare miliardario. Soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la “guerra alla droga” e le politiche di tolleranza zero, il numero di detenuti è esploso, generando una domanda crescente di strutture carcerarie. In questo contesto le carceri gestite da privati sono aumentate a dismisura, formalmente per alleggerire il carico sulla spesa pubblica ma, di fatto, aprendo un nuovo business per le grandi corporation. Aziende come CoreCivic (ex Corrections Corporation of America) e The GEO Group, due dei principali colossi del settore, gestiscono oggi centinaia di prigioni e centri di detenzione, ricevendo miliardi di dollari in appalti federali. Le loro entrate dipendono direttamente dal numero di persone rinchiuse: più detenuti, più profitti. Questo legame perverso ha incentivato l’incarcerazione di massa, ostacolando riforme volte alla decarcerazione e incoraggiando lobby carcerarie a livello statale e federale, lobby la cui influenza è divenuta enorme in occasione della rielezione di Donald Trump.
In realtà il modello risale addirittura all’epoca di poco successiva alla guerra civile americana. Negli anni ’70 dell’Ottocento, infatti, la liberazione degli schiavi nel Sud aveva lasciato gli Stati Uniti privi di una manodopera a basso costo. In parte gli schiavi vennero rimpiazzati da lavoratori salariati, in parte però – soprattutto per quanto riguarda i lavori più gravosi – il governo statunitense permise alle compagnie private di utilizzare i carcerati come manodopera a basso costo. Emblematico è il caso texano, presto imitato da altri Stati, del convict leasing (una sorta di “detenuti in affitto”): le piantagioni, le compagnie minerarie e ferroviarie e altre aziende garantivano di poter nutrire, vestire e alloggiare un certo numero di detenuti, mentre questi venivano impiegati come forza lavoro senza salario nella costruzione di ferrovie e ponti, nella ricerca di minerali preziosi o nella coltivazione del cotone. Questo sistema, in parte dismesso negli anni ’30 del Novecento, riguardava soprattutto i prigionieri afroamericani che, pur essendo solo il 20% della popolazione del Texas, rappresentavano la maggioranza dei detenuti nelle carceri dello Stato.
Il business del lavoro carcerario non è mai finito del tutto negli USA, e anzi si è ulteriormente espanso con la gestione dei centri ICE per migranti, e questo già dal 2014, con l’aumento delle detenzioni legate all’immigrazione irregolare. Le stesse aziende carcerarie – GEO Group, CoreCivic, MTC – hanno ottenuto lucrosi contratti dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale – oggi diretto da Kristi Noem – diventando i principali attori della detenzione di migranti considerati “irregolari” negli Stati Uniti. Le condizioni nei centri ICE, spesso peggiori di quelle carcerarie, come abbiamo visto nel caso di Alligator Alcatraz, sono state denunciate da ONG e media per abusi sistemici, sovraffollamento, violazioni dei diritti umani e totale opacità gestionale. In più, le aziende che gestiscono questi centri lucrano anche sull’effettivo lavoro dei detenuti: questi devono sopportare turni lavorativi anche di 12 ore giornaliere, venendo pagati circa un dollaro al giorno, per cinque o sei giorni alla settimana. Se pensiamo che ogni servizio in carcere viene pagato a caro prezzo dai detenuti, possiamo capire che la paga settimanale di un prigioniero torna completamente nelle tasche del padrone della prigione, e con un ottimo ricarico rispetto al servizio offerto: la paga settimanale di un detenuto nelle carceri ICE – circa sei dollari – corrisponde oggi al costo di una singola telefonata concessa al prigioniero per mettersi in contatto con la propria famiglia.
Davide Longo